Identità e beni identitari.

Cos’è l’identità? Ce lo chiediamo tutti e se lo chiede anche in un suo libro Francesco Remotti, antropologo e presidente di Scienze Antropologiche, Archeologiche e Storico-Territoriali dell’Università di Torino.

L’ossessione identitaria, questo il titolo del libro, estirpa dalle radici un concetto che è diventato una parola quasi inutile in questa epoca di globalizzazione e “universalismi”. Una parola, dunque, solitamente usata da intellettuali accorti che la vedono come una necessità per essere nel mondo attuale sia protagonisti che partecipi. L’identità, tra le altre cose, non ha riferimenti ideologici, è di destra quanto di sinistra, per quel che vale oggi questa distinzione, a mio avviso quanto mai volatile e inservibile.

All’apparenza, l’identità è un valore che ha cura del bene comune, ma spesso viene usata per attingere consensi a determinati gruppi politici o di persone in ambito televisivo, giornalistico, mediatico. Una parola che esprime senso di appartenenza ma sovente si svuota della sua valenza intima, quella che spinge una comunità a far quadrato attorno ad essa, unirla e mai separarla.

Il picco negativo della forsennata corsa all’identità è il bene identitario, visto come patrimonio fisico, umano, sociale, irrinunciabile. Qualcosa che per alcuna ragione al mondo deve essere mai soggetto a discussioni, rinunce e colpi di mano azzardati da parte di qualcuno. Con ciò, si intende che è la dissipante e spregiudicata strumentalizzazione del bene identitario che si discute e non il bene stesso.

Individuare o scegliere tra i tanti un bene pubblico più identitario di altri, è alquanto soggettivo e personale. Potrebbe anche accadere che uno vede un bene ed un altro ne vede uno del tutto distante dall’altro. Quando sento parlare della mia città, Tempio Pausania (ex Terme), ascolto decine di voci diverse, ciascuna ha una sua ragion d’essere e tutte diventano opinioni frastagliate di partigianeria.

Identità e bene identitario, a Tempio?

Entrando nel merito della questione Rinaggju, ho sentito spesso parlare di bene identitario per quanto vi attiene. Un parere sul quale concordo perché ogni pezzo della mia città è per me un bene identitario. Le sue pietre, le sue realtà ambientali, il suo profumo e il suo patrimonio umano e architettonico. Però, esaminando nei dettagli queste voci, occorre fare delle distinzioni indispensabili.

Le pietre, eterni simboli della nostra identità, sono beni statici, figli della cultura antica, fisse e solide che parlano una lingua obsoleta quanto evocativa. Sono i rimandi al passato che agiscono da monito contro il nuovo che immonda e deturpa e solo a volte colora di luci nuove e migliorative. Rappresentano la memoria ma sono connesse alle generazioni vecchie e non sposano le nuove che vorrebbero vivere senza guardarsi troppo indietro, né attorno. E’ perdere tempo, secondo i giovani, gettare lo sguardo nel passato, quando il moderno inghiotte e fagocita senza dar loro nemmeno il tempo di riflettere.

La realtà ambientale di Tempio era la nostra fortuna, ereditata intatta da chi ci ha preceduto e dismessa da noi con superficiale visione per la sua tutela. Oltre 30 anni che il patrimonio ambientale della città è stato stracciato e vilipeso da chi ne doveva aver cura. Una follia e una sufficienza da far rabbrividire un morto, ripensare a quel che prima era cura e attenzione ed oggi  tatuaggi indelebili fatti di indecorosi paesaggi. Verde trascurato, mondezzai a cielo aperto, strade e rari excursus nella natura viva che resiste ma soffre, appena fuori dalle mura.

L’identità della città è oggi il Carnevale

Il profumo di un tempo, ha lasciato posto ad olezzi e miasmi, dove il confine tra senso comune del rispetto viene soppresso e sostituito da libertà e trasgressioni di ogni sorta. Il profumo non è quello che si respira oggi, ma era quello che sentivi  prima, la tua aria, quella di casa. La sentivi quando stavi per arrivare a Tempio, aprendo il finestrino dell’auto, e venivi sommerso dalla finezza del vento, da odori inconfondibili e umidi che sentivi come brezza nuova sul viso e nel cuore. Eri a casa.

Ad aspettarti, al tuo ritorno, i palazzi, le strade curate, il verde rigoglioso, i fiori, le fontane. E poi, il salto a Rinaggju, un patrimonio di rara bellezza che un amico del FAI di Roma, mi disse, questo è l’Eden. E dire che lui venne quando Rinaggju era già sulla china del suo degrado assoluto, del mondezzaio che oggi gli amministratori vedono come un bidone dei rifiuti da dismettere al più presto.

Dunque, che senso ha ancora parlare di bene identitario e di identità? Se chiedo a 10 persone, e non perché siamo nell’imminenza, la sola etichetta che riconoscono alla città è il Carnevale, a nessuno se non a pochi, interessa cosa sia un bene identitario e men che meno a cosa serva Rinaggju. Sono ragazzi, già immersi in quel futuro che di certo ha solo la sua incertezza, che mal digeriscono la parola identità, e poco dispongono di conoscenza e abitudine alla riflessione attenta sulle asfissianti problematiche di questo “borgo”.

Rinaggju non è più una nostra identità

Per anni, credo di essere stato uno dei pochi frequentatori delle fonti di Rinaggju. Inutile dire perché lo facessi, era una semplice e consolidata abitudine a stare in silenzio e leggere. Una breve passeggiata, un bicchiere d’acqua, qualche telefonata, nulla più. Restavo ore a contemplare quel che mi circondava. Ogni tanto qualche rigurgito di mistica visione e riassaporavo le antiche tavolate, le urla e il gioco dei bambini, la pace e l’armonia che vi regnava. Ecco, per me era ed è un bene identitario ma non lo è per la mia città, è un bene irrinunciabile ma non per tutti. E’ un valore che l’incapacità di chi ci amministra, e lo ha fatto anche prima, non potrà mai vedere come lo vedo io.

Re Giorgio è la sola identità della mia città. Il Carnevale che si appresta a dare l’effimera gloria a questa comunità che non ha visto altro negli ultimi decenni. Presi da presunte e poco oculate convinzioni, hanno fatto in modo che la nostra identità, i nostri beni identitari, non fossero più le bellezze ma la sfrenata corsa al divertimento e basta. Ma che si faccia il monumento al Carnevale, che si dia questa sola identità alla città.

Sia gloria per 6 giorni e gli altri 359 siano d’attesa per quelli. Si sostituisca il brand della città. Che imperi Re Giorgio e la popolana Mannena per l’eternità. Amen.

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