La fotografia di un paese, di Antonello Caputo.

La fotografia di un paese è una riflessione sulla decadenza della città, sotto vari punti di vista: sociale, economica e umana. Un ritratto in bianco e nero, viraggio seppia, che si lega malinconicamente ad un passato che si rimpiange. Un presente che strizza l’occhio alla feroce globalizzazione e il futuro che si profila denso di oscure nubi e di incertezza. Sullo sfondo lo spopolamento che minaccia la vita stessa di piccoli agglomerati urbani ma che diventa la sola strada praticabile per sopravvivere e cercare di ribaltare una fine per certi versi inevitabile. « Il cambiamento è possibile – chiude la riflessione – solo se cambia il singolo. Bisognerà ripensare ad una società a misura d’uomo».

La fotografia di un paese

«Mentre passeggio per le vie della città, con la testa immersa nei miei pensieri, osservo i luoghi che conosco da tempo e che appartengono alla mia memoria. Durante la mia passeggiata, ad un certo punto, il mio sguardo si posa sulla vetrina di ciò che era stato un negozio, ormai in abbandono. Avvicinandomi a guardare meglio, al di là dei fogli di giornale che ne nascondono l’interno, scorgo qualche scaffale polveroso e nient’altro. Allontanando il viso, vedo un cartello che recita “vendesi questo locale”. Decido allora di fare un gioco: inizio a contare quante attività commerciali sono state chiuse in questi anni. Mi incammino. E il numero cresce più di quanto mi aspettassi.

Corso Matteotti – foto galluranews

La memoria va in quei luoghi in cui vi erano attività lavorative di ogni tipo, che creavano sostentamento e rapporti umani. Tutto oramai è chiuso ed abbandonato.

Faccio delle considerazioni personali, senza indagare troppo sui numeri, pensando ai cittadini che abbandonano la propria terra e alla chiusura delle aziende. Sono fenomeni interconnessi, e stanno spezzando di fatto il tessuto sociale, creando lo spopolamento dei paesi.

La moria di pubblici esercizi e di imprese artigiane continua inarrestabile nella città di Tempio Pausania. Un fatto allarmante e da tenere sotto costante controllo, con i dati sulla natalità e sulla mortalità delle imprese e lo stato di salute dell’economia urbana – ritratto dello stato di benessere dei singoli e delle famiglie. Oggi si capisce quel che ha fatto la grande distribuzione, accorpando tutto quel brulichio di piccole realtà e concentrandole in un unico posto, emblematico luogo di ritrovo delle famiglie: il famoso “centro commerciale”.

Fotografia sulla globalizzazione e sullo spopolamento.

Credo non sia sfuggito a nessuno e sia sotto gli occhi di tutti che, in questo contesto storico, vi sia un grande mutamento. L’enorme impatto sociale di quest’ultimo, abbinato allo spopolamento, che cosa implicherà negli anni a venire? Allarmato, ho cercato qualche informazione più precisa.

Un altro dato da considerare è quello dei cittadini che emigrano verso altre regioni o all’estero in cerca di occupazione e una nuova vita. Sul piano nostrano, nei comuni più piccoli, dove il fenomeno ha dimensioni più significative, ci sono maggiori incognite. Basti pensare che su 377 Comuni della Sardegna, 277 (la maggior parte nelle zone interne dell’isola) registrano un calo demografico costante, e sono solo 22 i comuni che crescono.

Proseguo con la mia ricerca, e scopro alcune cifre impietose. E qua cito i dati: secondo l’AIREL’anagrafe italiani residenti all’estero – assieme ai dati Istat e dell’Agenzia delle Entrate (da prendere come indicazione) ammontano a circa 130 mila le persone che nel 2017 vi si sono iscritte per ragioni di espatrio.

Fotografia in bianco e nero

Già dall’immediato secondo dopoguerra, fino alla metà degli anni Settanta, l’emigrazione fu straordinaria e cambiò la mappa delle regioni. Pare che non si sia mai arrestata. Oggi assistiamo al fatto che non è più una fuga di “cervelli”, ma bensì di sistema.

In una dimensione più coerente, e riprendendo a ragionare del nostro territorio, per quanto mi riguarda, non ho possibilità di verificare quante persone siano andate via dalla Sardegna con esattezza. Però la percezione, credo condivisibile da tutti, è che si stia assistendo, impotenti, a una distruzione sociale. Da padre di famiglia, che si pone delle domande, mi chiedo quale futuro sia in serbo per i nostri figli, costretti ad andare via dalla nostra terra per inseguire una possibilità, un sogno. La speranza sembra non esista più in questo luogo, che sta perdendo straordinarie opportunità, e possiede enormi qualità non spendibili nel nostro paese; e ancora: cosa ne sarà delle tradizioni e dei valori di ognuno di noi?

Infine, importanza tutt’altro che secondaria rivestono i social. Il loro strapotere, che è lo specchio dei nostri tempi, contribuisce a minare la nostra concezione di comunità, così come quella di identità. Nonostante viviamo in un ambiente multiculturale, infatti, i social mettono in crisi il concetto stesso d’identità (tra i più diffusi nelle scienze sociali) e di conseguenza minacciano ogni tentativo di integrazione da parte di individui “esterni”, gli “altri”, percepiti come tali.

Questo crea una barriera, e impedisce ogni possibilità di mutamento.

Con uno sforzo comune, in un paradigma moderno e contemporaneo, il cambiamento è possibile solo se cambia il singolo. Bisognerà ripensare ad una società a misura d’uomo».

Antonello Caputo

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