Tempio Pausania: la mia esperienza dentro il carcere di Nuchis. Riflessioni.

Tempio Pausania, 6 giugno 2014-

Non c’ero mai stato e mai pensavo di andarci. Invitato da Massimo Dessena ho voluto fare questa  esperienza, entrare nel penitenziario Pietro Pittalis di Nuchis per la presentazione di un libro. Non ero che un ospite e in tale veste faccio alcune riflessioni su questa occasione che mi si è presentata.

Intanto l’ambiente: da un punto di vista estetico e funzionale moderno e dotato di comfort, il carcere al primo impatto sembra tutto tranne che un luogo di detenzione, per intenderci quello che nel nostro immaginario vediamo come posto buio, privo di spazi e severamente restrittivo, ma assomiglia di più ad un collegio dove personale e detenuti sembrano uguali e sono distinguibili solo per la divisa.

Allineato alle disposizioni del Ministero, anche questo carcere rispetta il ruolo di centro di recupero umano dei detenuti. Ci sono ergastolani, alcuni che usciranno fra 10 anni, qualcuno a cui manca meno per scontare la pena ma la maggior parte di quelli con cui mi sono intrattenuto a chiacchierare erano acuti, intelligenti, desiderosi ad esempio di conoscere le mie opinioni sulla canzone e sul teatro napoletano. In comune un’estrema educazione. La cosa non mi ha meravigliato dopo aver visto la loro operatività nello svolgere operazioni artigianali, alcune anche complesse, con attenzione con cura e compiacimento  o dopo averli sentiti corrispondere con Giovanni Fasanella, il cui libro doveva essere presentato. Molti di loro sono studenti universitari, altri diplomati e altri ancora avidi lettori e molto preparati storicamente sia sugli avvenimenti che tratta il libro, di cui sembrava conoscessero il contenuto assai meglio di chi lo aveva già letto. La direttrice Carla Ciavarella è donna attenta e conosce molto bene la sua professione e ho notato un afflato tra lei e i detenuti che va oltre le direttive ministeriali del suo compito. Propositiva e positiva sempre nelle dinamiche di una professione che molti di noi vedono invece in maniera rigida ed intransigente.

La realtà dei penitenziari italiani, nel corso degli anni, è mutata radicalmente spostandosi da restrittiva e punitiva verso una maggiore attenzione e sensibilità verso i singoli casi.

So bene che questo mio articolo scatenerà reazioni avverse e sempre ci saranno i detrattori e coloro che vedono nel detenuto omicida non più una persona ma uno da condannare a punizione eterna se non a morte. Cosa vuol dire dare o fare dei privilegi, sempre che possiamo chiamarli tali, a chi ha ucciso senza pietà?

Ribalto il ragionamento e vi chiedo: era meglio farli patire, ucciderli lentamente e lasciarli a pane e acqua come ebrei nei lager o passarli alle armi direttamente, oppure provare a riabilitare chi ha sbagliato rendendolo attivo nel campo dell’istruzione personale, nella acquisizione di un mestiere o nel coltivare un arte, musica o teatro piuttosto che canto o poesia o letteratura?

Credo che la maggior parte di essi abbiano poche possibilità di uscire dal carcere ed è molto meglio che il loro tempo infinito venga suddiviso tra momenti di pentimento espiativo per quanto hanno commesso e altri nei quali attraverso la loro attività provino a redimersi mentre fanno qualcosa di positivo e di estremamente educativo più di mille restrizioni e privazioni.

L’attenzione che ho visto, le chiacchierate fatte con diversi di loro, mi hanno fatto capire che la via giusta sia proprio quest’ultima. Ora lascio a voi, alle vostre sicure divergenze d’opinione sul contenuto di questo articolo, la parola che certo non sarà favorevole. Poco importa, trattandosi di opinione personale, che non la pensiate come me ma vi pregherei di non essere demagoghi e populisti su un argomento che non è demagogico né populista ma nasce dall’aver visto, sentito e ascoltato delle persone che hanno sbagliato ma non sono nate per uccidere né per sbagliare. Vero, hanno ucciso e hanno sbagliato e ora pagano le loro colpe. Quest’ultima cosa è meglio non scordarla mai.

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