Tempio Pausania, “E’ solo questione di tempo trascorso, non di memoria perduta” arretrare per avanzare nel nostro cammino interiore.

Tempio Pausania, 14 ott. 2017-

Martedì 10 ottobre è stata una giornata storica per la Tempio calcistica. Nata dalle ceneri di quel che è stata una gloriosa società di calcio che ha tanto onorato la città nei campionati anche nazionali sino ai professionisti, il progetto sembra per la prima volta un bel quadro che svela tutti suoi colori, i tratti finalmente evidenti e definiti, una potenziale bellezza che riconcilia la città con la serietà e la partecipazione. Per me è stata anche occasione di ritrovare delle forze che da qualche tempo stanno cambiando il mio modo di affrontare la vita futura, quel prossimo immediato  che per tutti nasconde incognite e sorprese e che vorrei si espandesse anche col recuperare persone perse negli anni. Ritrovo attenzioni che mai ho provato, trincerato come ero nelle mie arroganze e presunzioni, che forse ci difendono al momento ma poi ci lasciano più vuoti e strizzati di un limone spremuto.

Cosa è in fondo questa coerenza che ci fa nascere uguali e che poi sciaguratamente perdiamo lungo il faticoso cammino, non prima di esserci separati? Siamo intrappolati nella presunzione e nelle finte prove di forza che attirano qualche volta consensi biblici ma in noi agiscono come stati rabbiosi, evidenti esagerazioni giustificate dal carattere che appaga prima e demolisce poi. Questa vita troppo social ci erge tutti al ruolo di giudici e ci fa sentire forti, giusti e sicuri per scelte avventate, quasi sempre errori, che confiniamo nel cassetto del cervello dove già la misura è colma ed è necessario svuotarlo, ma per sempre.

Qualcuno chiama questo “perdono”, ma lo stesso concetto è la contraddizione in termini se rapportato al fatto che anche “l’altra persona coinvolta” pensa che la colpa non sia la sua e che non abbia mai niente da farsi perdonare. Misuriamo il nostro ego in centimetri di sicurezza e trascuriamo che forse sono necessari decine di metri quadri di umiltà. Essere davvero umili, non è proprio quel che si intende normalmente, non è cessione di sicurezza, semmai la prova che il fatidico passo indietro è in realtà un avanzamento nella nostra eterna formazione umana, uno stato interiore che ci riporta a quella coerenza lasciata ad ammuffire nel gioco del vissuto di ciascuno di noi.

Lo rivedo, un evento che in 7 anni è capitato spesso, entrambi presi dalle stesse passioni, per lui un mestiere, per me una vocazione che cerco di svolgere al meglio, o “alla meno peggio”, seguendo quello stesso suo comune senso di appartenenza alle sorti di questa città e delle sue iperboliche derive, faccende risolvibili qualche volta, insormontabili ascese altre volte verso una ricchezza diffusa che non è quella finanziaria ma interiore e molto più appagante.

Lui ha perso tanto della vecchia sicumera, quella che esibiva con la volpe legata al guinzaglio,  mi appare invecchiato e soprattutto diverso nella postura, forse pena per dolori antichi e nuovi, forse i 70 anni non arrivano per tutti allo stesso modo, né ci lasciano baldanzosi e fieri. Forse, un varco è possibile trovarlo, un passaggio stretto dove poter infilare il mio sentimento che possa chiarire malintesi e assalti reciproci all’arma bianca, duelli all’Ok Corral nel Far West che entrambi pensavamo di abitare.

Avevo in “canna” questo nuovo passaggio della mia vita, un’altra prova difficile che ora ero pronto ad affrontare, in fondo i 7 anni sono solo questione di tempo trascorso, non di memoria perduta. La memoria cresce sempre e non si perde ma agisce come un martello nella nostra testa perché non si spegne mai sinché, ovviamente, la possediamo intatta.

«Ciao – gli dico – posso parlarti 5 minuti?».

Sorpreso da questa mia richiesta, mi guarda appena, abbozza quel che resta della vecchia sorridente espressione furbesca e si appresta a piazzare la sua strumentazione, davanti all’improvvisato proscenio dove doveva essere presentata la squadra del Tempio e il progetto ad essa collegato.

«Certo – risponde – dammi il tempo di preparare la telecamera e sono da te». Non era la risposta che mi ha sorpreso, in fondo la aspettavo, ma la sua faccia, forse spaventata o forse impacciata, sicuramente curiosa di sapere il motivo di questa mia domanda.

Passano più o meno 10 minuti, tra chiacchiere con Mario e qualche saluto di persone conosciute che hanno affollato lo spazio Faber in attesa che il Presidente prendesse la parola. Una tregua, quel varco auspicato di silenzio,  si siede accanto a me.

« Dimmi Antonio»,  dice, mentre gli stringo la mano, corrisposto.

Passano più o meno 5 minuti di colloquio sereno, pacato come sempre dovrebbe essere tra persone che hanno vissuto per quasi 2 anni il pionierismo della televisione locale, tra locali ancora in costruzione e scrivanie polverose. Lo osservo “dentro”, fuori è sempre lo stesso, tranne qualche evidente trascuratezza della barba incolta e del vestiario al solito liberty e poco attento alle forme. Mi piaceva anche per questo, per questo suo modo di essere autenticamente contadino, capace di darsi un tono e una nuova faccia quando era davanti ad uno schermo. Mi ascolta, lo ascolto. Capisce, capisco. Intuisco, intuisce. Noto, quasi all’improvviso che una piega nella sua vecchia sicumera gli incrina lo sguardo e si manifesta in una ruga che gli fa stringere gli occhi. Mi sembra commosso, quanto meno sorpreso. Non smetto di guardare i suoi occhi e lui fa lo stesso con me. Scorgo quella volpe sempre più invecchiata accanto a lui, mi sembra agonizzante. Che l’età abbia scalfito quella persona è piuttosto lampante, ha poca voglia di combattere e lo si vede, forse fare il nonno di una vivace bambina che gli gira attorno. ne ha sfiancato in parte l’orgoglio. Non ho ancora questa esperienza dell’essere nonno però immagino che cambi la vita quando l’età avanza, dandoci altre ragioni per continuarla a vivere questa esistenza affannata e sempre poco attenta alle emozioni vere che ci regala.

« Ti ho mai tolto la libertà di fare quel che volevi? Hai mai sentito un NO da parte mia? – dice alla fine – per me averti perso è stato un mezzo disastro, ma come sempre successo pure con altri, mi sono fatto una ragione anche di questo. Non potevo obbligare nessuno a restare, essere nella televisione era solo una scelta, non un vincolo».

Fisso bene l’immagine e non smetto un solo attimo di guardarlo, appare sincero e forse anche amareggiato per questi 7 anni nei quali a malapena ci siamo  scambiati un “ciao” senza convinzione, ma le sue affermazioni sono tutte vere. Per me essermene andato è stata dura da digerire, ma erano allora troppi i malintesi e le contraddizioni che avvertivo.

Forse vorrebbe chiedermi qualcosa, penso. Avverto in lui il desiderio di aggiungere altro, ma non insisto anche perché non ho voluto “lucidare” un rapporto perso per qualche mia prossima avventura o interesse, ma solo perché ne sentivo il bisogno assoluto di continuare ad essere sempre fiero di me e della mia crescita umana, di una rivoluzione che vorrei fare senza armi, né feriti, né cadaveri. Lo ha capito bene anche lui, il mio intento era e resta solo quello che ogni malinteso, ogni presunto orgoglio del cavolo, ogni nostro impulso all’azione forte e cattiva, alla fine porta solo inimicizie e odio. Non cerco amici, ma non voglio che nella mia sfera personale, nel mio bagaglio ancora carente di esperienze formative, esistano riflessi di odio per qualcuno. La giustizia tra esseri umani è fondamentalmente rispetto a doppio senso.

Oggi, non temo più i nemici, che so di avere, temo le derive sporche che trascinano fango e sono la certezza che odio, invidia, maldicenza, diffamazione, denunce, viaggiano col favore dei venti per quei poveri cristi che si nutrono di questi sentimenti, convinti che siano i soli a cui possono ambire e le sole armi che possono usare.

So per certo che domani, o quando sarà, quando rivedrò quel signore, la volpe non ci sarà con lui e il caffè lo potremmo riprendere assieme, così come sempre avevamo fatto in quegli anni di polvere e locali improvvisati per scrivere e combattere per questa passione comune che ancora ci unisce.

Ho voluto scrivertelo Angelo, martedì sera hai colto il senso delle mie parole, ed io il senso delle tue. Questo ci fa onore, ad entrambi.

Antonio Masoni

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