Tempio Pausania, “Il viaggio di una lettera”, di Battista Baltolu. Poesie e Racconti

Tempio Pausania, 22 gen. 2017-

Il secondo racconto di Battista Baltolu, dipendente Ente Foreste di Tempio, appassionato di scrittura e pesca, non necessariamente nell’ordine, che ci invia questo struggente e malinconico racconto, metafora di quel tempo che fu. Quando la penna era il nostro iphone per la comunicazione, quando ancora non si viaggiava nel cyber spazio arido e meccanico che allontana e dissipa l’umanità nel virtuale. Un ritratto in bianco e nero, a leggerlo oggi, con il fascino immutato del viraggio seppia di una foto degli inizi del secolo scorso, quasi la modernità e il progresso ci avessero tolto la chance dell’emozione che fa sussultare come quel tempo. Che malinconia ci investe, noi già attempati e canuti uomini e donne di questo millennio tecnologico che appesantisce e inquieta, che spaventa per la troppa fretta e non apprezza più quel  bisogno di lacrime e sorrisi veri tramutati in volgari smiles, con il sentimento imbarbarito da cuori disegnati e non più impazziti per gli occhi della persona amata che ci copre di abbracci e baci veri. Bellissimo “affresco” di una lettera, forse l’ultima, forse il saluto e l’addio finale all’emozione che ha lasciato il posto alla virtuale comunicazione tra le persone di questa epoca, senza più quel piacere-attesa per una lettera che, prima o poi, sarebbe arrivata. Vuoi mettere?  (A. Mas.)

IL VIAGGIO DI UNA LETTERA

Sono una carta da lettera, anzi no, lo ero, ora sono una vera lettera, come il destinatario che mi prenderà tra le dita potrà constatare. Vivo con la mia compagna inseparabile: la busta. Strano destino il nostro, rimanere sempre assieme da quando nasciamo a quando moriamo, chiuse in un cassetto o peggio strappate, e ancora peggio bruciate quando abbiamo esaurito il nostro compito. Resistono nei cassetti solo le mie colleghe fortunate, scritte da figli in guerra a madri che aspettano, madri ai figli, mariti a mogli e viceversa, e qualche altra categoria di epistole che avranno la dignità di divenire quasi immortali, come testimonianza di tragedia o di felicità, che dureranno almeno quanto i loro destinatari o mittenti. Ma la maggioranza di noi vive molto poco, il tempo di un viaggio a volte molto lungo, che ci porta a essere a contatto fisico con altre compagne d’avventura. Ho però una sensazione che avverto da un po’ di tempo e che mi fa paura: penso che la posta elettronica, i messaggi, internet, tutte queste cose strane di cui ho sentito parlare e che arriveranno a breve, in pochi anni decreteranno la nostra inutilità. Mi vengono i brividi solo a pensarci.Vi immaginate non poter toccare ciò che qualcuno ha scritto per voi, ha pensato; sfiorare una lacrima ormai secca in fondo a una lettera. Noi eravamo felici, sopportavamo le cancellature, gli sfregamenti della gomma, la scolorina a dosi massicce di quelli che cercavano di correggere un errore, o di altri che si erano pentiti di ciò che avevano scritto. Eravamo contente perché quelle parole corrette o meno, significavano amore, odio, disperazione, felicità, speranza, la vita insomma. Che sensazioni proverà chi scriverà un messaggio e chi lo riceverà? Noi scompariremo; è ineluttabile. E’ vero, saranno contenti gli ecologisti, perché meno carta verrà sprecata e meno alberi verranno tagliati, ma pensate anche a noi. Perderemo quella magnifica sensazione di essere maneggiate da dita profumate di una sposina, da dita sudate per l’ansia di un’attesa, sporche e tremanti di un militare al fronte, deboli di un malato a cui qualcuno ha scritto parole di speranza e sporche di rossetto di amanti appassionate.

Voglio perciò raccontare, come è stato il mio ultimo viaggio in tempi in cui il web non era diffuso e le mie colleghe, dopo di me ancora per molti anni l’avrebbero fatta da padrone.

Era il millenovecentoottanta. Mi imbucò un uomo un mattino d’inverno, freddissimo. Mi infilò di forza dentro la fessura di una cassetta di impostazione temendo forse che rimanessi incastrata nel passaggio. Caddi pesantemente sul fondo dentro la mia compagna di viaggio, una bustina bianca pulita e un po’ vezzosa con i lembi ricamati a mo’ di colletto di donna elegante e perbene. Brrr… faceva freddo là sotto, ero la prima a cadere giù a contatto con la lamiera di quel contenitore, si gelava. Il vento entrava dagli spifferi del fondo male isolato. Battevo i lembi. Dopo un po’ finalmente arrivò una persona che dalla voce mi sembrò che dovesse avere una certa distinzione. Noi dalla voce cogliamo molto del soggetto che parla perché capirete che raramente e solo in giornate di particolare luce riusciamo a intuire i volti. Questo signore che sentivo parlare di scuola con un amico, forse un insegnante o un segretario scolastico, infilò dentro la buca alcune buste che mi caddero addosso. Ahhh, finalmente qualcosa che mi copre, si comincia a sentire calduccio. Rimasi lì insieme alla mia compagna per ore, finché un uomo che dalla voce che sentivo distintamente non dev’essere stato molto incline a quel compito, grugnì una bestemmia irripetibile che mi disgustò e poi con rudezza aprì la base della cassetta e come un vortice cademmo tutte dentro un sacco di iuta che non profumava certo di lillà. Ci portò dentro l’ufficio postale lì di fianco. Così cominciò il mio viaggio.

Vidi in trasparenza, quando ci posarono in un enorme tavolo di formica verde, il colore di tutte le buste preziose e indispensabili compagne di viaggio di noi lettere. Una era proprio singolare, era di tessuto tipo mimetico-militare, chissà, pensai magari è di qualche soldato particolarmente convinto che vuole fare colpo con la sua bella, lui uomo forte e virile che non può certo inviare una lettera dentro una busta magari colorata. Ne vidi una con i bordi così sontuosi che non poteva che essere una partecipazione di nozze di gente altolocata e dai gusti un po’ pacchiani. Torniamo a me. Dovevo arrivare a Hong Cong-Cina. Un bel viaggio, non c’è che dire, non sapevo di preciso dove si trovasse questo posto, ma dal nome esotico che leggevo dall’interno della busta, in trasparenza, doveva essere molto lontano. I postini dell’ufficio di Tempio Pausania mi manipolarono più volte, puah, che fastidio, mi girarono, rigirarono finché non mi adagiarono in un casellario (avevo il capogiro). Rimasi lì solo per qualche ora finché non mi coprirono con della carta abbastanza pesante e pensai: “Devono essere delle lettere come me.” Mi sentivo un po’ a disagio ma almeno avevo compagnia. Di fianco a me vedevo un’altra pila di buste pronte per partire. Ne notai una, era rosa, profumata, seducente, me ne innamorai subito. Pensai: “Speriamo che faccia il viaggio assieme a me, e poi chissà, da cosa nasce cosa, magari la impilassero sopra di me, che felicità.” La speranza però durò poco. Un uomo rude, con movimento meccanico, e sicuro, di persona che ha fatto quell’azione migliaia di volte, evidentemente un postino, mi prese, mi girò, dopodiché sentii una tale botta che rimasi stordita non so quanto. Aveva annullato il francobollo col timbro Guller. La busta rosa scomparve, non l’avrei più rivista. Ci misero dentro sacchi di iuta nuovi, me ne accorsi dal odore diverso dal primo, “Posta internazionale.” Saremmo partiti subito. Che caldo dentro quel sacco. Una busta puzzava come un baccalà, lessi l’indirizzo, era diretta in Giappone al mercato del tonno di Tokio, avrebbe fatto un viaggio più lungo del mio e ciò significava che quel profumo avrei dovuto sopportarlo per tutto il lungo viaggio. Arrivammo all’aeroporto di Olbia su un furgone postale. Dall’aeroporto di Olbia mi ritrovai in viaggio verso Roma. Allo smistamento di Roma-Fiumicino il fracasso di macchinari e di addetti in fibrillazione per il lavoro era insopportabile. Ci smistarono un’altra volta. Il sacco dove ero stata riposta non fu aperto: Fui sballottata con i miei compagni di viaggio su un carrello trasportatore, direzione India. Seppi da alcune letterine che sarebbero sbarcate a Nuova Delhi. Una lettera a me vicina mi confidò che era destinata a un mercante di animali. Era perplessa e disgustata perché immaginava il viaggio di quei poveri animali esotici, vittime innocenti della vanità umana. Atterrammo dopo circa un giorno a Nuova Delhi: L’umidità era soffocante; alla puzza ci eravamo ormai abituati. Ci scaricarono in un magazzino dentro la città. Viaggiammo dentro un camion che ci portò al centro. Scoprii ciò dalla descrizione di una letterina sicuramente scritta da una donna che diceva: “Cara Susan (era il nome della collega a cui scriveva), ti scrivo per dirti che non vedo l’ora di riabbracciarti e di continuare il nostro lavoro di squadra nella giungla (erano ricercatrici botaniche di piante esotiche). T’immagino immersa nella giungla con i tuoi attrezzi da lavoro, i portatori, gli elefanti, quella terribile umidità ma anche quella bellezza e quel pericolo sempre incombente e così eccitante, e quella simbiosi con la natura più selvaggia. T’immagino, e ne sono invidiosa, anche dentro quella città immensa ad ammirare le masse brulicanti nelle vie, sui fiumi, nei campi di riso. Spero di condividere con te ancora una volta queste esperienze.” Mi sentivo attratta da quella descrizione a tal punto che avrei preferito che il mio viaggio finisse lì. Ma non fu così. Ripresi il viaggio dentro il mio sacco che a causa dell’umidità puzzava ancora di più.

Fui nuovamente sballottata da un carrello a un nastro trasportatore, da un altro nastro all’ennesimo carrello. Mi sentii sollevata in aria, poi mi scaricarono violentemente dentro la pancia di un altro aereo, destinazione Hong Kong. L’aereo cominciò a sballottarci da destra a sinistra, avevamo sfiorato una tempesta tropicale. Ne uscimmo dopo un ora, così mi sembrò dal sole che tramontava vedendo la tenue luce tra le fibre di iuta del sacco. Una letterina piangeva. Sapeva che all’arrivo l’avrebbero fatta in mille pezzi. Conteneva parecchi dollari avvolti dentro un foglio bianco, per mimetizzarli.

Era destinata a un certo mister Gibbs, sicuramente soldi sporchi.

A parte qualche vuoto d’aria il viaggio fu tranquillo. Arrivammo a Hong Kong dopo due giorni di viaggio, eravamo stanche e stropicciate. Le bustine più fortunate che erano vicino agli oblò mi dissero che la vista di quella città era meravigliosa. Una marea di luci occhieggiava in quell’immenso golfo tanto che sembrava un cielo di stelle proiettato a terra, così carico che prendeva il respiro, diceva la voce di un’altra letterina più vicina a me e che voleva fare partecipi di quella meraviglia tutti i compagni di viaggio. Atterrammo in un aeroporto immenso. Ero arrivato a destinazione; ancora qualche ora e sarei stata inviata all’indirizzo che portavo scritto. Ero tesa quanto la busta mia compagna, tanto che i suoi lembi umidi cominciarono ad aprirsi. Mi consegnarono in una casa inglese, lo capii dal maggiordomo che aprì e salutò il fattorino. Mi portò dentro dove passai in una mano esile, delicata, una mano di donna elegante. Aprì il bordo della busta con un tagliacarte di argento, mi sfilò e lesse. Capii subito dal sudore che dalle sue mani mi penetrava, che non c’era d’aspettarsi niente di buono. Infatti, presa da un ira incontrollabile mi fece a pezzettini; aveva letto che il fidanzato la lasciava. Era un vigliacco, non aveva avuto il coraggio di dirglielo per telefono; per me fu la fine. Tanta fatica per nulla.

 Battista Baltolu

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