Il sabato del villaggio, sempre più villaggio, sempre meno paese.

Un altro sabato, da anni sempre lo stesso giorno, più simile a quello di borghi silenti e sperduti che a quello di città che vogliono riprendersi quel ruolo che il tempo sta cancellando. Esco spesso la mattina, quando ancora si riesce a godere di  temperature miti e del sole. Esco per osservare e riflettere, la città me ne da ampia possibilità. Tempio è diventata un villaggio dove poco succede. Basta un mercatino per rianimare un qualche interesse, per far uscire la gente fuori di casa?

Dubbio tremendo. E’ troppo poco, perché questa disarmante situazione mi ricollega a una consistente porzione di anni, quelli dell’adolescenza di tanti come me sessantenni. Rivedo le stesse cose che ci accomunavano allora, la festa e il sabato. Nelle prime si usciva per forza, nel sabato si esce perché c’è movimento disarticolato attorno al mercatino. Si guardano oggetti e cose che sono sempre le stesse, da quelle degli ambulanti con le loro cianfrusaglie taroccate, indumenti o qualche altro stand di gastronomia o di ortofrutta. Sono sempre gli stessi interpreti e la stessa rappresentazione. Però si esce, ed è questa la sola cosa che conta di sabato.

Questo di sette è il più gradito giorno,
Pien di speme e di gioia:
Diman tristezza e noia
Recheran l’ore, ed al travaglio usato
Ciascuno in suo pensier farà ritorno. (Il sabato del villaggio di G. Leopardi)

Com’eravamo

Uno degli aspetti peggiori del mutare dei tempi, è questa disomogenea distanza dal nostro passato. Chi, come quelli attempati, ne osserva l’abissale lontananza, chi, come i giovani delle ultime generazioni, vi si approccia con totale e destrutturata apatia. Sussiste in coloro che hanno “anni anta”, più vicini ai 50 che ai 40, nostalgia e disagio. Non si comprende perché gli anni possano determinare altro che una fisiologica distinzione tra prima e dopo. Perché, manchi l’orgoglio della appartenenza, o la disaffezione al luogo natio. Come se Tempio fosse una città metropolitana che ingoia il tempo e le abitudini del passato. Come se bastasse l’era tecnologica dominante a dare l’orientamento verso un futuro che mai è stato così incerto e difficile.

Un sessantenne di oggi, seppure a sua volta convertito all’era del virtuale spinto e ossessivo, non nasconde la propria malinconia per la perversa tendenza a socializzare coi sistemi attuali. Usa ma non ama gli strumenti del cosiddetto progresso, il cellulare tanto per citare uno dei prototipi della destrutturazione dei principi cardine delle relazioni umane.

Il suo pensare, in uno dei sabato del villaggio, volge lo sguardo al vuoto poco ossequioso nelle relazioni dirette attuali. Usa ma non ama mandare messaggi, non li usasse sarebbe come perdere il gancio necessario che lo lega al tempo che vive oggi. Un caffè, un  aperitivo e tante malinconiche chiacchiere sui tempi che si rimpiangono.

 

L’Ammentu, il ricordo.

“Till’ammenti!”. Ti ricordi, di quella Tempio in bianco e nero che sentiamo dentro perché questa a colori non ci piace troppo? Rammenti, la “carrera”, il posto delle nostre relazioni dirette, quando la vicina di casa era zia  senza esserlo e l’anziano o il vecchio col suo vissuto straordinario, era il cantastorie che bramavi ad ascoltare. 

Siede con le vicine
Su la scala a filar la vecchierella,
Incontro là dove si perde il giorno;
E novellando vien del suo buon tempo,
Quando ai dì della festa ella si ornava,
Ed ancor sana e snella
Solea danzar la sera intra di quei
Ch’ebbe compagni dell’età più bella. (Il sabato del villaggio)

Nel villaggio “C’era maggior rispetto”. Si, anche questo è vero, c’era soprattutto più amore per le cose che si avevano e tante aspettative per quelle che si desideravano, poche ma esaltanti allora per chi ci ambiva. I giochi erano semplici, scatenavano comunque la fantasia, erano prodromici e funzionali alla nostra crescita, a quella educazione che non ha mai avuto testi chiave di riferimento. Educazione fai da te, suffragata dagli esempi genitoriali o da  tutti quei riferimenti della nostra formazione. ” Non si fa questo”, era abbastanza per comprendere qualcosa che poi la scuola avrebbe definito al meglio con lo studio.

La carrera, il quartiere, era il cosmo non il micro cosmo, ogni luogo della città era simile, con gli stessi ritmi, miserie o ricchezze che si somigliavano ovunque. La città era universo che non ti dava nemmeno una sola occasione per andartene via. Avevi quel che cercavi, ci realizzavi i tuoi sogni, il lavoro, la famiglia. 

Come si vive oggi

Il villaggio vive una sorta di prigionia,  come l’osservare le cose da dietro una grata senza provare nemmeno ad abbattere questa dicotomia tra essere città e vivere in una città. Le sbarre sono la distanza siderale tra noi e la percezione delle vite che passano aldilà. Si ritorna al microcosmo che non ha alcuna attinenza con la bellezza della nostra gente, che riusciva a creare in ogni luogo lo stesso clima di fiducia, rispetto e generosa condivisione. Oggi prevale il bene singolo, il piccolo appezzamento dove i miei ortaggi crescono al meglio, dei tuoi che marciscono, poco mi importa.

Passa il tempo, come un uragano si riempie delle nostre rughe ma quel che a noi interessa è che funzioni tutto al meglio per me e per la mia famiglia. L’opposto di quello che nella nostra adolescenza abbiamo vissuto.

Prima il vicinato era anche la tua famiglia; ora, seppure la dimensione di Tempio sia simile a quella di un  paese, esci di casa e ti ritrovi le sbarre, come se la porta accanto sia “proprietà privata” o “off limits”.

E’ cambiato tutto, il villaggio sonnecchia, si appaga di un passato che ormai non è nemmeno ricordo ma malinconico sentiero nei pensieri di chi ne rammenta la vivacità e i colori accesi. Il trauma è oggi cronica invalidità, è simboli che ti osservano dai palazzi in pietra, da qualche lettore del quotidiano che resiste alle tentazioni del web, che insiste a fare la passeggiata tra le vie storiche, i palazzi che sembrano fardelli. Tra il remoto e il moderno che non ha una sua storia. E’ la perdita spietata della nostra identità, dell’attaccamento alla fierezza che sentivamo ovunque. 

Attraversare un corso e non vedere nessuno, sostare per un momento tra assorti vecchietti seduti al sole e pochi giovanissimi che con l’immancabile piccola balia elettronica assestano l’ultima frecciata agli sguardi diretti. Il filtro lo hanno tra le mani, è il nuovo miracolo di chi ha devastato i rapporti tra persone, simili ora a stereotipati modelli a cui conformarsi.

Il Villaggio è sempre meno consono ad accogliere i suoi abitanti, figurarsi turisti, di cosa dovremmo sorprenderci? 

Piazze, strade, attività commerciali

Incontro tante persone, turisti che arrivano a bordo di qualche bus. Girano le strade del centro, vanno e vengono alla ricerca di un locale, forse anche di qualche negozio di souvenir o della bottega artigianale dove trovare qualche chicca della nostra arte. Seguono composte la guida che spiega la città, ne illustra la sua storia, e provo ad interpretare quale possa essere il loro pensiero. Faccio fatica, anche se dagli occhi di chi sta fotografando i monumenti, i palazzi, la pietra, colgo stupore, compiacimento. Questo mi rincuora in parte, almeno in occhi stranieri resta qualcosa che i nostri occhi non provano nemmeno a cogliere. 

Il sabato del villaggio, oggi anche la domenica. Sembra che il sonno sia il solo rimedio alla malinconia di questo posto. Sono il primo che lo amo e che lo difendo, sempre. Mi assale però il dubbio che siamo rimasti in pochi. Troppo pochi.

Aspettiamo il prossimo sabato, dai. Almeno il mercatino per distrarsi siamo certi di trovarlo.

 

 

 

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