Omertà, silenziosa complicità.

L’omertà è tra gli atteggiamenti umani il più odioso. Fare finta di non vedere, non sentire, decidere consapevolmente di non parlare, significa tradire se stessi prima che i nostri simili e la legalità.

Solidarietà diretta a celare l’identità dell’autore di un reato. Quella solidarietà che, dettata da interessi pratici o di consorteria, oppure imposta da timore di rappresaglie, consiste nell’astenersi volutamente da accuse, denunce, testimonianze, o anche da qualsiasi giudizio nei confronti di una determinata persona o situazione: tutti sapevanoma nessuno osò infrangere il muro dell’omertà“. (Vocabolario Treccani).

Non vedere, non sentire, non parlare. Non sono i sentimenti contemplati dal “Silenzio degli innocenti” ma una finta solidarietà che è colpevolezza perché ammazza le coscienze e calpesta la dignità umana. Anche il “mi faccio i fatti miei” è indice di finta appartenenza alle vicende di una comunità. Anche i “si arrangino”, sono espressioni comuni di chi ha nei confronti della propria comunità l’approccio pseudo solidale. Quando si dice “tutti sapevano e tutti sanno“, si è complici in doppia cifra. Perché, seppure il condizionale è obbligo professionale per chi tratta di informazione, dinanzi a fatti conclamati, piccoli e grandi che siano, restare muti è la peggiore delle soluzioni. Dovremmo sentire tutti il peso della parola responsabilità, saperne valutare la grandezza e l’etica inossidabile che l’accompagna. Diventa straziante, al contrario, omettere di essere responsabili, anche quando non siamo noi direttamente coinvolti in un’azione illecita. 

Omertà, come paura delle querela?

Nel tempo, si è creato un baratro tra ciò che rientra nei doveri civili di una persona e ciò che appare come una fuga da quei doveri. Omertà è questo, sapere e non parlare, pensando a torto che “parlare” voglia dire diffamare. La giurisprudenza poi ci ha messo del suo, acuendo e estendendo a dismisura presunti limiti del raccontare quanto si conosce in base a prove e dati certi. Anche i confini del codice civile e penale, vengono interpretati e un fiotto di legali sembrano appostati ogni giorno a leggere parole, frasi, sfumature e accenti, comprese punteggiature, per intravvedere i presupposti della diffamazione. Si giudica una frase o una riflessione e non il suo contenuto sostanziale che mira a fare il proprio dovere, ossia non essere omertosi e raccontare la verità dei fatti accaduti.

La risposta di chi detiene le chiavi del potere, piccolo o grande, è sempre la stessa: querela, a prescindere. “Non devi essere tu, povero affabulatore e cantastorie, a scoprire i miei fatti e denunciarne la gravità”. Fatti li cazzi tua, direbbe Cetto, e quel personaggio è la raffigurazione sempre attuale dei potentati. In chiave comica certo, ma con una dose talmente elevata di verità da far rabbrividire.

Cosa fare allora con chi dell’omertà ne fa uno stile di vita

Scrive Donata Salomoni, « Ogni società civile è regolamentata dalle leggi, dalle norme etiche, dai principi morali, dagli usi, dai costumi, dalle tradizione e dalle innovazioni. In particolare i canoni etici, appresi sin dai primi giorni di vita, attraverso l’educazione familiare e ambientale, sono il fondamento della nostra appartenenza al genere umano. Tali precetti motivano il nostro comportamento e di conseguenza il comportamento della collettività a cui apparteniamo. Le dinamiche sociali evidenziano i comportamenti individuali, dove gli spazi lasciati vuoti dall’etica, vengono colmati da disvalori, comportamenti contrari alla legalità e al senso prosociale dell’umanità».

Tra i disvalori, l’omertà è il sentimento del silenzio colpevole che è in contrasto con la legalità di cui proprio i potentati di turno dicono di seguire le indicazioni. Per far questo, ossia avere sempre davanti il terreno sgombro da ostacoli di qualunque natura, devono contare sul silenzio delle persone che appare tacito assenso. Invece è omertà che diventa, nel tempo, una lenta agonia perché uccide lo spirito di un individuo e ne annienta la coscienza. 

«Chi tace e chi piega la testa muore ogni volta che lo fa, chi parla e chi cammina a testa alta muore una volta sola». Giovanni Falcone

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