“La vita di chi lavora in ospedale” è il ritratto di un mestiere, pubblicato da qualcuno sul web. Una giovane infermiera dell’ospedale di Tempio, Sara, le ha pescate tra tante e le ha postate nella sua pagina facebook. Non sono le sue parole ma lo sono diventate perché rispecchiano il mondo che quotidianamente un sanitario ritrova in corsia, tra sofferenze e empatia, tra ciò che ha lasciato prima del timbro e quel che forse riavrà all’uscita. Non esiste nulla di confezionato, niente che assomigli a routine. In ospedale, solo le procedure sono uguali ma chi ci lavora ha vissuto diverso, non assimilabile all’altro.
La descrizione di questo mestiere però è simile per tutti quelli che in ospedale ci lavorano. A noi che in ospedale non ci lavoriamo, serve capire e saper leggere in questo ritratto la normalità che è la sola cosa che lo differenzia dagli altri mestieri.
Le parole, secondo alcuni, sono solo frasi ad effetto e quasi mai ci si sofferma a riflettere su quanto un infermiere, un medico, provano quando entrano od escono da quel mondo. Cosa si lasciano prima di entrarci e cosa ritrovano dopo. Quali sensazioni li avvolgono durante e quali responsabilità si riportino a casa quando smontano.
Di fatto, sei sempre in corsia perché quella vita che hai scelto è dentro di te tutto il giorno e tutto il tempo, come una seconda pelle, come quel camice che non levi mai.
La vita di chi lavora in ospedale
«La vita di chi lavora in ospedale è scandita dagli armadietti, che sembra di essere in campeggio: spazzolino, dentifricio e beauty-case.
È scandita dalle divise, eterni pigiami che diventano un tutt’uno con la pelle, a furia di indossarli: cambi colore per la monotonia, li personalizzi, ma sanno di te e del tempo che li indossi.
Le facce di chi lavora in ospedale sono sempre le stesse, un po’ perché ci si conosce tutti, un po’ perché chi passa la maggior parte di tempo qui dentro, fa di questo posto (il più triste al mondo, c’è gente che soffre), la sua seconda casa.
E quindi ti incontri al badge e subito “monti o smonti?”, “arrivi o vai?”…e vi garantisco che sui volti si legge sempre un po’ di amarezza, per chi viene e lascia a casa cose e per chi va e si porta dietro cose.
La vita di chi lavora in ospedale è anche tanto gossip, tanti cliché, tanti luoghi comuni: “chissà che combinate li dentro”, come se ci avessero posizionato un casting porno e tra un giro visita e una consulenza ci diversissimo ad accoppiarci, per dare un senso alla giornata che trascorre lenta.
Quello che noi vediamo ai più è per fortuna invisibile, quello che noi condividiamo ci porta a provare sensazioni di estrema collaborazione e sintonia o totale ripudio e disprezzo.
Viviamo sotto riflettori che non si spengono mai, perché quando siamo qui dentro sono sempre situazioni spiacevoli e quando sei fuori hai gli occhi puntati addosso dei tuoi cari: “adesso ce l’avrai un po’ di tempo per me?”, “quando fai la prossima notte?”, “mangiamo insieme domani se non sei stanca».
Un eterno senso di colpa
«Vivi la sensazione eterna di peccare, di mancare, di dover recuperare. Un eterno senso di colpa, come a non essere “buona” una volta fuori di qui. “Faccio tardi, per stasera passo”, “ci sentiamo quando mi riprendo dal coma”, “è arrivata un’urgenza all’ultimo minuto, do una mano alla collega”.
E chi ti sta vicino comprende, comprende sempre. E un po’ subisce. E tu vivi pensando che vorresti giornate più lunghe, vivi aspettando il weekend libero per poter dare le attenzioni che chi ami avanza, vivi sapendo che dovrai giustificare assenze, momenti bui, stanchezza fisica.
A volte arrivano soddisfazioni che ti danno tanta carica, i colleghi sono affiatati, il gruppo è giovane, stimolante. A lavoro dai tutta te stessa, ti impegni, è quello per cui hai studiato e sacrificato tante parti di te (beata gioventù). Ormai in tutti i reparti si trovano “questionari di gradimento”, perché è giusto anche essere giudicati per come ci poniamo con la gente, oltre che per come proviamo a sollevare dal dolore e curare le malattie.
Perciò, perdonateci le assenze, perdonateci i ritardi, perdonateci gli errori.
A nessuno piace restare a lavoro più del dovuto, a nessuno piace trascorrere le notti o le feste fuori casa.A nessuno piace sembrare distanti o perennemente stressati, distratti. Ci ripromettiamo sempre di recuperare, e se falliamo nel farlo, ci pesa ogni giorno un po’ di più.
Proviamo a farvi sentire al sicuro, dateci una mano quando serve a noi, a casa, spogli di tutto, a rassicurarci. Fateci capire che se noi siamo gli eroi, è anche grazie a voi».
Chi lavora in ospedale
Lo specchio riflette ogni giorno quel che gli si presenta. Le nostre rughe, i dolori, le ansie, i sorrisi e le lacrime. La vita è simile per tutti ma non è uguale. La vita di chi lavora in ospedale ha tempi senza tempo, ore che dilatano a dismisura, seguendo ritmi frenetici e mai troppo compresi. Si sforzano di renderli normali, si dicono abituati/e.
Mentre tu sei a casa a recuperare normalità che hai modellato alle tue esigenze, chi lavora in ospedale è accanto ad un letto ad assistere qualcuno. Mentre tu stai scrivendo due righe pensando che siano le parole più belle del mondo, loro rincuorano lo sconforto di un vecchio che piange. Devono correre all’altra stanza, il campanello suona, un paziente si lamenta.
Non sarà mai troppo il rispetto per chi lavora in ospedale, per chi ha scelto di dedicarsi agli altri e sa che gli altri saranno sempre al primo posto nella sua vita. Quel lavoro non è uguale agli altri. Né migliore, né peggiore, semplicemente diverso.
Pensiamoci, quando una piccola o grande contrarietà ci spinge ad essere aggressivi contro quel camice o quando crediamo di avere davanti a noi un automa che risponde a comandi preordinati.
Dentro quella divisa, c’è cuore e anima, ci sono “notti e feste fuori casa” accanto a dolori, sofferenze, malattie, vite che ci asciano per sempre, familiari che vegliano i loro cari.
Pensiamoci, perché la vita di chi lavora in ospedale non è uguale alle altre. Né migliore, né peggiore, semplicemente diversa.