Le luci di Atlantide. Un nuovo progetto per una nuova arte

Le luci di Atlantide: l’ideatore è Massimo Selis, 46 anni a ottobre, con alle spalle studi di psicologia e la scuola di cinematografia a Roma. Attualmente Massimo è aiuto regista, scrittore e articolista per riviste online d’arte. L’ultimo film a cui ha lavorato è “Assandira” di Salvatore Mereu.
Le luci di Atlantide è un progetto che sta lanciando con il suo nuovo “collettivo”, un gruppo che comprende diverse figure professionali – al momento una decina – con lo stesso orientamento artistico, che si propone di dar vita ad una nuova forma espressiva a tutto tondo.
Nella lunga intervista che ci ha concesso ci parla di questo progetto e lo contestualizza in un momento di grande difficoltà della cultura italiana, ponendosi tanti dubbi su ciò che è successo da un anno e mezzo a questa parte.

 

Massimo, parlaci del tuo progetto.

«Nasce nella primavera scorsa, anche se il lavoro è iniziato mesi prima. L’idea parte dal fatto che c’era bisogno di un cambio di rotta nel mondo dell’arte e della cultura che, secondo me, aveva una malattia che non voleva ammettere di avere. In un momento storico dove tutto viene messo in discussione c’era bisogno di fare gruppo, di trovare altri artisti “liberi”, disposti a spezzare certe catene. Il cinema era sì ripartito, a fine estate 2020, però con tutta una serie di regole e restrizioni. E io mi sono chiesto se volevo accettarle oppure no».

 Quindi cosa hai pensato di fare?

«Ho cercato professionisti un po’ ovunque, non solo in Sardegna. Non è stato facile, perché purtroppo nel mio ambiente l’omologazione è totale. Trovare artisti che non si pieghino a certi ricatti del potere è quasi come cercare un quadrifoglio in un prato. Quelli abbastanza famosi non si vogliono esporre, o per convinzione o per puro interesse».

Le luci di Atlantide, un collettivo di figure professionali variegate

«Ho trovato al momento alcuni artisti sardi, tra cui qui in Gallura il poeta Jean Òre, alias Gianfranco Orecchioni. C’è poi un attore di Sassari e altri di varie regioni d’Italia: alcuni musicisti, un fotografo, una persona che fa animazione cinematografica con la tecnica dello stop motion, un regista. Siamo un gruppo variegato, sia per regione che per specializzazioni professionali».

Quindi hai avuto delle risposte, però magari non quante ne aspettavi. Hai parlato di una decina di persone: sono un po’ poche, per una cosa così.

«In realtà per un collettivo le persone non dovrebbero essere tante, perché diventerebbe difficile gestire i progetti. Il nucleo deve rimanere relativamente piccolo. Ce ne sono però altre che ruotano attorno o che hanno collaborato da esterni ai progetti di questo periodo. L’importante è che condividano alcuni principi di base. Essere parte del collettivo significa anche impegnarsi attivamente su diversi fronti».

Quali sono questi principi di base?

«In un momento storico come questo, c’è bisogno di una rottura col passato. Questo significa anche accettare che quel mondo che abbiamo conosciuto fino al 2019 è finito. Sia che si parli di un grande azzeramento o di una grande ristrutturazione, il “great reset”, il potere vuole un cambiamento. E la risposta non può essere solo il «No». La nostra idea è costruttiva, vuole mollare gli ormeggi e proporre strade nuove. È chiaro che all’interno del collettivo ci sia una convinzione ponderata e divergente rispetto a quella che può essere definita la narrazione ufficiale da marzo 2020. I dati dimostrano che questa narrazione è fallata, e che quindi non può portare a tutte le restrizioni che viviamo quotidianamente».

«È il tempo di riscoprire un sano e vero mecenatismo»

L’impronta che hai dato a questo progetto, il principio cardine, è un movimento di rottura con il passato. Chiaramente chi vi aderisce, di fatto, la deve pensare comunque come te… giusto?

«Sì, è così. Un collettivo fatto di artisti è per sua natura propositivo. Però, per essere propositivo, deve partire dal presupposto che le cose non andavano bene nemmeno prima. La rottura è anche con i contenuti, con certe forme artistiche, e poi con le forme di produzione dell’arte. Il cinema, ad esempio, ha bisogno di finanziamenti pubblici, che siano regionali, statali o europei. Ma se si vuole un’arte libera, e che esca da una certa autoreferenzialità, se si vuole una società diversa da come era prima, allora anche l’arte va finanziata dai privati. Questo è il tempo per riscoprire un vero e sano mecenatismo. Tornare ai mecenati, o alle donazioni dei singoli. È come per l’editoria: se le persone vogliono un’informazione libera e indipendente, devono supportarla». 

Un po’ come è successo per Byoblu, a livello mediatico, e per tanti altri canali che devono per forza reggersi su questo…

«Sì, e la stessa cosa vale per l’arte. È un discorso difficile, perché fondamentalmente siamo tutti cresciuti in un mondo individualistico, dove ognuno pensa a sé. Ma in un sistema che crolla, dove le istituzioni sono ormai contro le persone, bisogna capire che siamo tutti sulla stessa barca. Un artista è come un medico, come un avvocato, come un insegnante. Nessuno si salva da solo. Gli artisti sono liberi di produrre opere valide solo nella misura in cui si forma una coscienza collettiva. Credete in un’idea artistica? Bene, allora finanziatela, e aiutate a diffonderla».

Le luci di Atlantide: sganciarsi dal sistema per tracciare una nuova rotta

Senti, Massimo, quanta sofferenza c’è stata in questo anno e mezzo per persone che, come te, hanno delle idee e non possono esprimerle? Come hai fatto a superare questi momenti?

«Io mi sento fortunato, perché in realtà non ho subito niente: ho scelto».

 Come hai affrontato, da scrittore, la narrazione di questo periodo?

«Ho scritto i primi articoli che toccavano l’argomento già da marzo 2020. Fin dall’inizio ho cercato di far riflettere le persone sul fatto che quanto stava avvenendo aveva dei significati, e che lo scopo dell’uomo era quello di andare a capire quali erano questi significati. Da sempre scrivo che la Storia ci parla. Parla a noi come umanità, e ci mette in discussione. Ecco perché “Le luci di Atlantide” ha preso vita dopo un anno, ma l’idea veniva da molto lontano: l’idea che questa umanità avrebbe dovuto fermarsi e riflettere. Vedere che questa situazione non è solo sanitaria, ma ci dice molto sulla struttura sociale del nostro sistema economico, del lavoro, artistico e culturale. Perché questa società era malata già da prima. E bisogna andare a capire quali sono i motivi. Allora forse potremo cominciare a progettare qualcosa di nuovo».

Invece è successo tutt’altro…

«Ecco perché l’arte deve sganciarsi il più possibile dai sistemi di finanziamento pubblici, perché anche quello è qualcosa che ha fatto ammalare l’arte. Se tu devi sottostare alle regole che i Bandi pubblici impongono – per la selezione, per le categorie, per i contenuti – allora sganciarsi da quel sistema è già un modo per dire che vogliamo tracciare una nuova rotta. Partendo dall’orizzonte artistico, “Le luci di Atlantide” vuol essere questo».

«Il mondo dell’arte è chiuso in se stesso»

Le poche voci fuori dal coro che ci sono state in questo periodo non erano voci di poco conto: vi sono anche dei grandi artisti. Ricordo Bocelli, Ruggeri, Enrico Montesano, che non è l’ultimo degli attori, e qualcun altro, ma non tantissimi. Ti dava un po’ di speranza, quando sentivi queste persone che si opponevano ad un mainstream che ha dilagato a livello di informazione?

«Forse tutti si aspettavano qualcosa di più. Ma io non ero molto fiducioso: sapevo benissimo quali sono le dinamiche di quel mondo. Ci sono due ragioni fondamentali per cui la grande maggioranza non si è opposta. La prima è che nel settore dell’arte moderna, soprattutto il cinema, tutte le persone la pensano allo stesso modo. Credere che qualcuno si svegli di punto in bianco, e dica qualcosa di eversivo, è francamente ingenuo. L’altro motivo è la convenienza. Montesano è una persona che ha ormai alle spalle una carriera lunghissima, rappresenta una figura legata al passato. Così come Eric Clapton.

Provate invece ad immaginare un attore giovane che sta cominciando la sua carriera adesso, che sta iniziando ad avere quel minimo di celebrità. Immaginate che, di fronte a quello che succede nel mondo, si esponga pubblicamente con una posizione divergente da quella ufficiale del potere. Da domani sarà disoccupato. Perché il mondo dell’arte è chiuso in se stesso, e si basa esclusivamente sulle relazioni. Se io faccio l’attore e mi sbattono fuori, in quel mondo probabilmente non entrerò mai più. E non è così facile che domani trovi un altro lavoro. Se sono un musicista o un regista, è lo stesso. Allora io chiedo al pubblico, che magari si indigna perché certi attori fanno i mercenari della narrazione: ma noi abbiamo la forza di carattere che chiediamo a loro?»

Il nodo del greenpass: si può uscire dai paradossi combinando realismo e idealismo

«L’arte va liberata anche da queste gabbie ideologiche. Proprio per questo c’è bisogno di una comunità che supporta i medici e gli insegnanti, ma anche gli artisti coraggiosi».

Veniamo al nodo cruciale di questo particolare momento: questa tessera verde, questo green pass che dal 15 ottobre dovrebbe essere obbligatorio un po’ per tutti. Uno dei tanti strumenti che il Sistema sta adottando per ingabbiare ancor di più le persone, specialmente nel mondo dell’arte. Io ho riscontri recenti di persone che hanno prodotto dei lavori cinematografici e non sono potuti neanche andare a vederli né a ritirare i premi ricevuti, perché non si sono sottoposti al vaccino. Ecco, si può uscire da questi aspetti paradossali? E come, considerando che il buonsenso non esiste più?

«Il realismo deve combinarsi con l’idealismo. Il realismo ci dice che siamo in una situazione molto grave, in un tempo veramente oscuro. Nessuno può prevedere quando finirà. Ma l’idealismo implica che qualunque tragedia si supera. Nel nostro piccolo noi, come “Luci di Atlantide”, vogliamo portare un messaggio costruttivo, proporre delle dinamiche nuove. E questo va fatto in ogni ambito sociale. Va ripensato il sistema di istruzione, lavorativo, sanitario eccetera. Stanno già nascendo tante realtà parallele alla scuola. Da questo buio si esce nella misura in cui un certo numero di persone incomincia seriamente non solo ad opporsi, ma a costruire delle alternative».

Le nuove produzioni di “Le luci di Atlantide”

Massimo, ci siamo fatti una bella chiacchierata e abbiamo raccontato più o meno tutto. Vuoi aggiungere qualcosa?

«Sì, una cosa a cui tengo assolutamente. “Le luci di Atlantide” ha deciso di realizzare tre piccoli progetti audiovisivi che andranno su internet. Sono interamente autoprodotti, senza alcun budget, uno diverso dall’altro. Il primo progetto, che abbiamo scelto come “manifesto”, è un video che si chiama «We shall overcome». È una canzone famosa, con una storia lunghissima: un canto di libertà e di speranza contro ogni forma di oppressione. L’abbiamo scelta perché ci sembrava proprio simboleggiasse questo momento storico. Una prospettiva di luce dopo l’oscurità.  «We shall overcome» è già da alcuni giorni sul nostro canale YouTube. Lo abbiamo realizzato animando delle fotografie originali, veramente belle, scattate da un fotografo di Orvieto, Marco Mandini. Io ne sono il direttore artistico».

E gli altri due progetti?

«Il secondo progetto, che uscirà fra pochissimi giorni, è completamente diverso e sicuramente spiazzerà le persone. È un cortometraggio di animazione che usa il registro dell’ironia, quindi farà sorridere. Adatto a tutte le età, anche ai ragazzini, è senza dialoghi, per cui non solo per il panorama nazionale. In un momento come questo, saper usare anche l’umorismo e l’ironia è necessario. Del terzo progetto non voglio svelare troppo. È un altro cortometraggio, in questo caso realizzato con la classica tecnica delle riprese video. Nasce da una poesia di Jean Òre, alias Gianfranco Orecchioni, che si intitola “Oggi questa notte”. La poesia ha un duplice significato. L’abbiamo scelta perché simboleggia la notte che sta attraversando l’umanità. Ma, come sappiamo, dopo ogni notte… arriva l’alba!»

 “Le luci di Atlantide” può liberare altri artisti ancora nascosti

Ora dacci i riferimenti social.

«Abbiamo una pagina Instagram. Sul canale YouTube c’è il link diretto. Sono già usciti articoli, interviste e video sul progetto del collettivo. Ne usciranno sicuramente altri, sia a livello locale che nazionale». 

A quando il primo tuo lungometraggio come regista? Ce l’hai nel cassetto?

«Ho già scritto un lungometraggio 5 anni fa, e ho il “trattamento” di un secondo film, cioè un racconto già suddiviso per macro scene. Ho poi ho scritto alcuni cortometraggi, anche questi in attesa di essere realizzati. “Le luci di Atlantide” potrebbe essere anche un aiuto per liberare altri artisti ancora nascosti. Ci vorrà del tempo per arrivare ovunque, ma la diffusione del nostro progetto sarà capillare. Noi invitiamo a liberare anche le idee degli altri. C’è bisogno di altri artisti, di altri collettivi con cui collaborare. Io comunque resto ottimista, pur sapendo che il tempo è difficile e bisogna avere una tempra d’acciaio per non cedere».

Chissà che questa nicchia non si allarghi sempre di più… C’è veramente bisogno di cultura, di conoscenza. C’è bisogno, anche con i cambiamenti di cui hai parlato in questa intervista, di produrre un’arte nuova, con riferimenti diversi dal passato. Intanto perché rappresenta il tuo lavoro, e stando fermi, progettando e basta, non si mette su il pranzo con la cena. È un momento di impasse terribile, un po’ per tutti. Siamo in un momento di asfissia totale, non c’è più spazio per nulla: televisione stereotipata, modelli mediatici tutti uguali… E c’è questa narrazione che ha aleggiato come un fantasma per un anno e mezzo attorno a tutti noi, raccontandoci soltanto una verità. Bisogna riportare la gente a fare cultura, e credo che il tuo progetto abbia anche questo intento. Ti auguro che vada in porto.

«Grazie, Antonio!»

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