Tempio Pausania, 30 giu. 2015-
Fonte: Orizzonte 48 blogspot
(Piccola avvertenza: insoddisfatto della mia consueta farraginosità, ho rivisto in corsa il par. 4.1, che contiene l’illustrazione della corretta versione della portata di un divieto di “aiuto di stato” all’interno di un’area a moneta unica. I “primigeni lettori” sono pregati di scusarmi e, se vogliono, di procedere alla rilettura di quella parte del testo).
Le “anime candide” (?) e “fognatrici” in chiave rigorosamente “euro”, ci ripetono pateticamente ogni giorno che “tutto” il velleitario armamentario del “federalismo fiscale solidaristico UEM” possa essere materia di trattativa in sede UEM, ma continuano a ignorare le norme dei trattati europei, e del diritto internazionale, utilizzandole come una clava soltanto per autoflagellare l’Italia.
Per costoro, un piccolo chiarimento. Ma non certo per illudersi che possa servire a suscitare un (tardivo) risveglio.
La Germania ha gravemente e irrevocabilmente violato i trattati, configurando un “sistema” articolato di alterazione della concorrenza intra UEM, onde favorire le proprie esportazioni. Ciò ha fatto coordinando una strategia efficace e spregiudicata che non tollera controlli e verifiche di rispetto delle norme dei trattati.
Ecco come:
1) le “famose” riforme Hartz“.
Sforare, come ha fatto la Germania dal tempo delle riforme Hartz, il limite debito/PIL (che quasi inizialmente rispettava) per”fiscalizzare”, (fuori da una situazione congiunturale in atto, attenzione!) i costi di disoccupazione-sottoccupazione, indotte per deflazionare le retribuzioni, vìola:
Quello che conta non è soltanto il meccanismo utilizzato ma la sua essenza non cooperativa e il suo orientamento per “volume” e caratteristiche.
Basti dire al riguardo, che con la consueta vaghezza aggiustabile caso per caso, la Corte europea, avrebbe altrimenti affermato un autentico armamentario di principi contraddittori e suscettibili della più ampia applicazione arbitraria una volta collocati, come correttamente impone la realtà di un’area valutaria, nello scenario della moneta unica, per di più priva di un sistema di trasferimenti fiscali federali, e che perciò imponeva una ASSOLUTA ATTENZIONE AL PROBLEMA DEL COORDINAMENTO PREVENTIVO, COSTANTE E ARMONICO DELLE POLITICHE ECONOMICHE, SOCIALI E DEL LAVORO, specialmente in quanto incidenti sul totalmente trascurato, da parte delle istituzioni UE, equilibrio commerciale all’interno dell’UEM.
Li riportiamo dalla fonte citata per segnalarne i caratteri ora evidenziati e la plateale esigenza di “rilettura” nella situazione di “moneta unica” che la Corte europea ha fallito, deliberatamente o meno, di compiere:
i) origine pubblica
l’aiuto deve essere imputabile allo stato. La Corte ha pacificamente ammesso che si considerano imputabili allo stato tanto gli aiuti concessi dalle autorità centrali degli stati membri, quanto quelli concessi dagli enti regionali e locali, dalla pubbliche amministrazioni e da ogni soggetto pubblico e privato creato o incaricato dallo stato per la gestione dell’aiuto medesimo.
E’ tuttora in discussione, invece, se per configurarsi un aiuto di stato sia necessario che il finanziamento dell’intervento sia effettuato tramite risorse pubbliche o meno. La Corte di Giustizia ha più volte affermato che una misura nazionale può costituire aiuto solo qualora venga finalizzata per mezzo di risorse statali, affermando che la fissazione di prezzi minimi al dettaglio, allo scopo di favorire i distributori a carico esclusivo dei consumatori non può costituire aiuto di stato.
Tale orientamento è stato successivamente confermato anche da ulteriori sentenze che hanno qualificato aiuti di stato solo i vantaggi concessi direttamente o indirettamente mediante risorse statali. Applicando tali principi la Corte di Giustizia, nel giudizio 13 marzo 2001, C-379/98, proposto da Preussen Elektra, ha ritenuto che la normativa tedesca che impone alle imprese private che forniscono energia elettrica, l’obbligo di acquistare a prezzi minimi prefissati l’energia del prodotta da fonti rinnovabili non costituisce aiuto di stato. Infatti il vantaggio che tale normativa attribuisce ad alcune imprese è realizzato tramite un trasferimento diretto o indiretto di risorse statali, ma è pagato dalla imprese private di fornitura di energia elettrica;
ii) vantaggio economico
la misura pubblica deve esser in grado di conferire all’impresa che ne beneficia un vantaggio che non avrebbe ricevuto nel normale corso degli affari. La sentenza Ferring (Sentenza della Corte, Sesta Sezione, 22 novembre 2001, causa C-53/00) ha previsto che la remunerazione di un servizio prestato o il rimborso di pesi imposti nell’interesse pubblico, non costituiscono un aiuto in quanto in tal caso il destinatario non beneficia in realtà di un vantaggio ai sensi dell’art. 107 TFUE;
iii) selettività
per definirsi aiuto di stato, l’aiuto deve essere in grado di favorire determinate imprese e produzioni. Il beneficiario della misura pubblica deve essere pertanto una qualsiasi entità che eserciti un’attività economicamente rilevante e sia presente sul mercato dei beni e dei servizi. La disciplina comunitaria investe quindi su tutte le imprese, pubbliche o private che siano.
Tuttavia non costituisce aiuto una misura che favorisca l’insieme dell’economia, come nel caso delle riduzioni generali dei contributi previdenziali e degli aiuti alla ricerca.
Nonostante tali esclusioni, determinate misure generali, che hanno l’effetto di alterare la preesistente situazione concorrenziale del mercato, possono comunque rientrare nel campo di applicazione dell’art. 107 TFUE qualora producano l’effetto di favorire determinati settori. La Corte ha infatti ritenuto che costituissero aiuti di stato la riduzione degli oneri sociali relativamente ad un determinato settore industriale. La dottrina ha affermato che per poter distinguere un aiuto di stato da una misura generale occorre di volta in volta verificare se la misura può essere giustificata in base ad una logica di sviluppo del sistema economico nel suo insieme ovvero rappresenti una deviazione rispetto all’assetto del sistema, diretta a ridurne gli oneri finanziari a vantaggio di specifici attori;
iv) effetti delle concorrenza
circa la distorsione della concorrenza, è stata data un’interpretazione piuttosto estensiva; la concorrenza risulta falsata qualora l’intervento dello stato provochi una modifica artificiale di certi elementi dei costi di produzione dell’impresa beneficiaria e rinforzi la sua posizione nei confronti delle altre imprese concorrenti. L’orientamento maggioritario sembra essere quello secondo cui è necessario verificare che l’aiuto sia tale da incidere sugli scambi tra gli stati membri e minacci di falsare la concorrenza fra le imprese situate in altri stati membri. La Commissione è tenuta a fornire indicazioni concrete sulla natura delle minacce portate dalla concorrenza ed al commercio intracomunitario, poiché la mancanza di una tale motivazione determina l’annullamento della decisione;
v) effetti sul commercio tra gli stati membri
spesso accade che un aiuto concesso incida sugli scambi tra gli stati membri. Un aiuto concesso dallo stato può rafforzare la posizione di un’impresa nei confronti di altre impreseconcorrenti negli scambi intracomunitari. L’incidenza sugli scambi è stata accertata anche nel caso in cui l’impresa si trovi in concorrenza con prodotti provenienti da altri stati membri senza partecipare essa stessa all’esportazioni.
Non è escluso che un aiuto concesso dallo stato a un’impresa che esporta quasi tutta la sua produzione fuori dalla Comunità possa alterare la concorrenza intracomunitaria, in quanto l’esportazione verso paesi terzi di una parte delle produzioni dell’impresa considerata rappresenta soltanto un delle varie circostanza da valutare.
La mancanza di una delle sopra indicate condizioni, determina che la misura non costituisca aiuto di stato ai sensi del trattato e non è dunque sottoposta alle regole del trattato circa la materia degli aiuti di stato.
Nonostante il principio del divieto degli aiuti di stato, l’art. 107 TFUE, paragrafo 2, prevede alcunederoghe di pieno diritto. Beneficiano automaticamente di una deroga:
i) gli aiuti a carattere sociale concessi ai singoli consumatori, a condizione tuttavia che siano accordati senza discriminazioni determinate dall’origine dei prodotti;
ii) gli aiuti destinati ad ovviare ai danni arrecati da eventi eccezionali, come le calamità naturali;
iii) gli aiuti alle regioni tedesche che risentono della divisione della Germania.
Possono considerarsi compatibili con il mercato comune, gli aiuti destinati:
i) a favorire talune regioni in ritardo di sviluppo;
ii) a contribuire alla realizzazione di un progetto di interesse europeo o a porre rimedio a un grave turbamento dell’economia di uno stato membro;
iii) ad agevolare lo sviluppo di talune attività o regioni economiche;
iv) a promuovere la cultura e la conservazione patrimoniale;
v) altre categorie di aiuti determinate dal consiglio.
4.1) E’ evidente l’aspetto critico posto in premessa e già evidenziato nel caso delle “riduzioni dei contributi previdenziali”, poichè, contrariamente a quanto affermato dalla Corte in precedenza alla introduzione della moneta unica, questo intervento appare possedere TUTTI I REQUISITI PER INCORRERE NEL DIVIETO, tanto più guardando, punto per punto, le contraddittorie e ormai anacronistiche affermazioni della Corte, specie in tema di “settorialità” delle agevolazioni distorsive.
Quest’ultima, se non si volesse prestare acquiescenza ad ogni espediente mascherabile solo in virtù dei meccanismi di cambio (più o meno flessibile) anteriori alla moneta unica, e che la Corte non ha mai riconsiderato, aggiornandoli nel nuovo quadro giuridico-economico, pare nulla più che un residuo del passato.
La settorialità, infatti, e quindi la violazione del divieto di aiuto di Stato, può considerarsi decisiva solo se si prosegua a considerare i meccanismi monetari precedenti alla moneta unica, fingendone la attuale operatività.
E quindi, per converso, risulta essere proprio la “generalità” dell'”aiuto” ad essere superata come ragione di sua giustificabilità, nel meccanismo di interdipendenza commeciale di una moneta unica.
Questo stesso carattere “generale” giustificatore, tenuto in piedi come un simulacro del tutto anacronistico, viene in effetti ancora oggi legittimato non scorgendo un disegno di alterazione della concorrenza che può emergere, cosa che la Corte vuole ignorare, solo esaminando l’andamento generale dei mercati, non settore per settore.
In una area valutaria, l’esame va necessariamente compiuto in base al “complesso” degli squilibri commerciali effettivamente imputabili a quella misura fiscale.
E ciò specialmente quando, in modo significativo, come nel caso della Germania, una misura si debba ritenere, per il suo obiettivo effetto sui tassi di cambio reale, intenzionalmente non coordinata con gli altri Stati aderenti all’UEM e dannosa per essi, in quanto non giustificata da alcuna situazione congiunturale considerata proprio dal par.2 dell’art.107, (cioè, anzitutto dal grave turbamento dell’economia).
E infatti, in concreto, un governo è perfettamente in grado di preventivare e orientare verso l’export, anche attraverso politiche apparentemente generali di fiscalità, proprio i settori complessivi che ne fanno esplicita richiesta, componendo un quadro di contatti politici che non può non essergli noto in anticipo e che tengono conto, appunto, in anticipo, del funzionamento dei tassi di cambio reale in un’area a moneta unica.
Analoghe considerazioni valgono per i fenomeno del credito alla esportazione, quando esso raggiunga livelli di valore quali quelli tedeschi, e, ancora una volta, si collochi nelle dinamiche della moneta unica, che non potevano e non dovevano essere ignorate nè nel comportamento di “buona fede” nell’esecuzione dei trattati che doveva seguire la Germania, nè dall’esame concretamente devoluto alla (inutile) Corte di Giustizia, che non pare obiettivamente avere le competenze per gestire con la dovuta oculatezza le difficoltà già insite nella voluta imperfezione della disciplina UEM.
5. Registrato questo “bollettino” di una guerra persa in tutti i modi e a tutti i livelli, dall’Italia, senza neppure provare a combattere (come invece la Costituzione imponeva ai governi italiani coinvolti), oggi la situazione è clamorosamente sbilanciata.
Ma i tedeschi non si accontentano. Basta leggersi
questo articoletto su “Il Messaggero” di oggi, tra i tanti comparsi nei giornali italiani, riguardante le ultime dichiarazioni del solito Schauble.
“Berlino avverte la BCE: non violi i trattati per aiutare l’Italia.”
E già qui si parte male: Schauble, esponente governativo tedesco non può che aver parlato nell’esercizio delle sue funzioni.
Quindi ha già, per ciò solo, e come al solito impunemente, violato una delle più importanti norme del Trattato, una di quelle che i tedeschi considerano essenziale, ma evidentemente solo a proprio unilaterale favore.
Cioè l’art.130 del TFUE: “Nell’esercizio dei poteri e nell’assolvimento dei compiti e dei doveri a loro attribuiti dai trattati e dallo Statuto del SEBC e della BCE, nè la Banca centrale europea, nè una banca centrale nazionale nè un membro dei rispettivi organi decisionali possono sollecitare o accettare istruzioni dalle istituzioni, dagli organi o agli organismi dell’Unione, DAI GOVERNI DEGLI STATI MEMBRI nè da qualsiasi altro organismo. Le istituzioni gli organi e gli organismi dell’Unione, NONCHE’I GOVERNI, DEGLI STATI MEMBRI SI IMPEGANO A RISPETTARE QUESTO PRINCIPIO E A NON CERCARE DI INFLUENZARE I MEMBRI DEGLI ORGANI DECISIONALI DELLA BANCA CENTRALE…”
Ma qual’è il casus belli che conduce con la consueta iattanza Schauble a dettar “istruzioni” in tono perentorio in aperta violazione dei trattati?
La ventilata possibilità di acquisto da parte della BCE dei così detti ABS (asset backed securities) dei paesi del sud Europa. Per Schauble, ciò costituirebbe un “finanziamento” nascosto agli Stati più deboli”, che avvantaggerebbe le PMI italiane.
Cioè si avrebbe un’operazione di questo tipo: i crediti delle imprese italiane verso lo Stato, (ancor prima di essere pagati con farraaginose creazioni legislative in pareggio di bilancio, per “quote” che sarebbero in realtà ipoteticamente scaglionate nei prossimi anni in corrispondenza di equivalenti tagli alla spesa pubblica), sarebbero ceduti alle banche italiane e da queste “cartolarizzati”, cioè resi dei titoli obbligazionari basati sull’asset del debito-garanzia statale (considerato sostenibile e quindi altamente solvibile), e poi scontati presso la BCE che li acquisterebbe rilasciando la corrispondente liquidità alle banche che potrebbero, contando su ciò, immediatamente anticipare le relative somme alle imprese, fornendogli i fondi per evitare chiusure e insolvenze.
Tutto ciò per Schauble costituirebbe un “finanziamento statale occulto” vietato dall’art. 123 TFUE.
Ma così non sarebbe, dato che la norma in questione , oltre a vietare l’acquisto diretto di titoli pubblici (cioè alle aste di collocamento), per la BCE, vieta la concessione di scoperti di conto corrente o qualsiasi altra forma di facilitazione creditizia alle amministrazioni statali o a enti pubblici o organismi di diritto pubblico o a imprese pubbliche degli Stati membri. Ipotesi in cui non rientra, a rigore, in modo diretto, una evenienza del genere.
A essere finanziate sarebbe le banche, private e non destinatarie del divieto, che sarebbero a loro volta creditrici, certo agevolate e garantite dalla provvista BCE, dello Stato. Le imprese cedenti sarebbero originariamente creditrici dello Stato ma garanti “pro solvendo” verso le banche cessionarie: cioè il credito sarebbe estinto, verso lo Stato, ma solo nei diretti confronti delle imprese, in quanto se lo Stato italiano (in futuro) non pagasse le banche, le imprese stesse rimarrebbero solidalmente obbligate verso le stese banche cessionarie a corrisponderne l’importo.
Quella che salta agli occhi è l’arroganza illimitata dell’atteggiamento.
Se mai fosse ipotizzabile un indiretto finanziamento allo Stato, ma molto indiretto, data la pendenza dell’obbligazione solidale delle imprese sull’asset sottostante, lo sarebbe solo in una visione meno forzata e certamente più rispettosa dello spirito dei trattati di quella in base alla quale i tedeschi hanno effettuato, con la defiscalizzazione del lavoro delle riforme Hartz e con il massiccio credito alle esportazioni, gli aiuti di Stato in favore dei propri specifici ( e attentamente programmati) settori industriali esportatori.
In questa situazione, in cui la scarsa cooperazione che ha portato alla preventiva e gravissima violazione dei trattati da parte tedesca si aggiunge alla violazione del divieto di dare istruzioni alla BCE e alla capziosa interpretazione dei trattati per CONSOLIDARE IL VANTAGGIO COMPETITIVO TEDESCO RAGGIUNTO NEL MODO ILLECITO QUI AMPIAMENTE ESAMINATO, starebbe al nostro governo attivarsi e reagire.
Questo è un banco di prova fondamentale per dimostrare che, nonostante i proclami e le anime “candide e fognatrici”, non ci sia alcuno spazio di trattativa coi tedeschi.
E non solo, ma di fronte al loro massiccio e decisivo inadempimento dei trattati, anche per
far valere il principio, del diritto dei trattati,
“jus cogens” inderogabile (art.60 Convenzione di Vienna), che “inadimplenti non est adimplendum”: cioè
non può fare la voce grossa, per di più su questioni per le quali è vietata dal trattato ai governi, ogni presa di posizione, chi non sia rispettoso delle regole che invoca, esclusivamente a suo favore.
Ma non attendetevi cooperazione, ravvedimento o dignità di azione. Nè dal governo tedesco nè da quello italiano.
Fino a quando rimarremo in un trattato ad applicazione “diseguale”, in cui è impedita ogni parità di condizioni, imposta dall’art.11 Cost., e ogni considerazione della dovuta importanza che, per la stessa ripresa mondiale, ha l’economia di un grande paese come l’Italia? Che ha il solo torto di dare fastidio con la sua (residua) vitalità industriale alle mire imperialistiche della Germania? Fino a quando dovremo farci trattare come un paese di serie C, lasciando calpestare la nostra Costituzione?