Tempio Pausania, L’Analisi Transazionale, la “carezza” come unità di riconoscimento, di Rita Brundu (8^).

Tempio Pausania, 13 mar. 2018-

Il viaggio nel mondo dell’Analisi Transazionale, alla scoperta di noi stessi e del mondo delle relazioni interpersonali. Per chi volesse riprendere dall’inizio questo percorso informativo a questi numeri i relativi articoli precedenti della stessa autrice:   –  – 3°-  –  – 6°-  7^.

 

LA “CAREZZA”: UNITA’ DI RICONOSCIMENTO

Ognuno di noi ha bisogno di essere toccato e riconosciuto dagli altri. In Analisi Transazionale questa “fame” di contatto fisico o forma simbolica di riconoscimento è chiamata “carezza”.

Ci sono varie forme di “carezze”: uno sguardo, una parola, un gesto o una qualsiasi azione che significhi “so che ci sei”. Per sottolinearne l’importanza sappiate che un bambino che non viene toccato non si sviluppa normalmente; anzi, si è notato che i neonati privati di stimolazioni fisiche tendono a un declino fisico che li rende più vulnerabili alle malattie e anche alla morte. Infatti i neonati che vengono privati di un sufficiente contatto fisico possono soffrire di una deprivazione assai simile a quella derivante da carenza alimentare. Per inciso, vi faccio partecipe di un’altra recente notizia che arriva dalla Comunità Scientifica e dalla quale anch’io sono rimasta sbalordita: in un esperimento i gatti, posti di fronte alla scelta tra le carezze del padrone e una ciotola di cibo, sapete cosa hanno scelto? La prima opzione! Quindi, anche gli animali hanno bisogno di stimolazioni e di riconoscimento.

Ma torniamo al bambino che cresce e diventa adulto. La sua fame primaria di contatto fisico si trasforma in fame di riconoscimento: un sorriso, un complimento, o al limite anche un’occhiata storta o un insulto, gli mostrano che la sua esistenza è stata riconosciuta. In caso contrario dovrà stare attento: infatti le decisioni che prenderà nella sua infanzia riguarderanno non solo il suo comportamento e le relazioni future, ma anche le malattie che svilupperà da adulto. Di questo ne sono personalmente molto convinta per aver alle spalle una vasta bibliografia che supporta questa mia opinione; ma, a rafforzarla, sono state anche le mie esperienze personali (in seguito, se lo desiderate, amplierò questo argomento). Infatti un bambino che continuerà a non aver segni di riconoscimento potrà ferirsi o ammalarsi, e il suo grido sarà questo: “Siccome continuate ad ignorarmi, mi ammalerò; così sarete costretti a prendervi cura di me!”. E’ un ragionamento che, inconsapevolmente, è molto probabile ripeterà anche da adulto: l’unica differenza sarà che non cercherà il segno di riconoscimento e il sostegno dei genitori ma quello di qualcun altro all’interno della società. Magari quello dell’ospedale. In genere questo aspetto “ regressivo” della personalità si ha quando nel corso della vita si ripresenta un abbandono, un lutto, un tale stress che riporta all’esperienza infantile e, inevitabilmente, alla decisione presa da bambini.  Vedremo, in seguito, che qualsiasi transazione è uno scambio di carezze, e che ne esistono di positive e negative.   Una carezza positiva è piacevole, una negativa è spiacevole. Potreste pensare che le persone cerchino sempre carezze positive ed evitino quelle negative. In realtà noi esseri umani operiamo secondo un principio diverso: qualsiasi tipo di carezza è meglio di nessuna carezza! Vi sembrerà strano, ma è proprio così. Vi faccio un esempio: io conosco un uomo che ha evidenti difficoltà a relazionarsi con gli altri : l’unico modo che ha per avere una “carezza” è cercare continuamente la lite. Credo di essere l’unica persona al mondo con la quale non è riuscito nel suo intento, perché ho sempre rigettato i suoi espliciti inviti al contrasto: infatti ho sempre risposto in modo diverso alle sue aspettative, capovolgendole in segni di riconoscimento positivi. Credo che me ne sia grato. Come ho fatto ve lo spiegherò in modo approfondito, e in termini tecnici, quando introdurrò l’argomento delle transazioni.

Questa fame di riconoscimento può provarsi ovunque: in casa, in classe, anche sul lavoro. In una azienda industriale un ispettore si accorse che uno dei suoi tecnici di laboratorio passava troppo tempo presso il distributore di bevande, lasciando ogni ora il suo posto in cerca di qualcuno con cui parlare. Dopo una informazione di Analisi Transazionale, quell’ ispettore prese l’abitudine di fare capolino, a brevi intervalli, nel laboratorio del dipendente, scambiando con lui qualche parola amichevole; in breve tempo i suoi vagabondaggi per i corridoi diminuirono considerevolmente. Scoprì in questo modo che chi lavora fra altre persone deve tenere presenti i bisogni umani di riconoscimento. I buoni dirigenti sono coloro che sono capaci di “toccare” gli altri e di dare loro appropriati segni di riconoscimento (esempio tratto da “Nati per vincere”).

Le carezze positive danno a una persona una sensazione di benessere, di vitalità e d’importanza. Un genitore dà una carezza positiva quando abbraccia il suo bambino e gli dice: “Ti voglio bene”. Un capoufficio ne dà una positiva quando risponde in modo diretto alla domanda di un suo impiegato. Un commesso dà a un cliente una carezza positiva quando lo saluta con un “buongiorno”. Ma lo sono anche un semplice “ciao!”, un amico che ti incontra e ti sorride, una stretta di mano, la tua amica che cucina per te la tua pietanza preferita (a proposito, ringrazio la mia amica Tina che spesso mi fa assaggiare delle pietanze sfiziose!).

Ma vorrei adesso sottolineare una carezza positiva che mi sta particolarmente a cuore, perché è una delle più belle che possiamo fare ad una persona: stare ad ascoltare. Per ascoltare nel modo più gradito, dobbiamo concentrare tutta la nostra attenzione su chi parla. Ma troppe persone distratte e non interessate non raggiungono mai questa capacità; e, di conseguenza, ecco le lamentele:

i figli: “i miei genitori non mi ascoltano mai”. I genitori: “i miei figli non mi ascoltano mai”. Mariti e mogli: “lui (lei) non mi ascolta mai veramente”.

Quando qualcuno è stato ascoltato, la conclusione è che i suoi sentimenti, le sue idee, le sue opinioni sono state realmente sentite, e dunque non è stato ignorato. Anche i sentimenti di chi ascolta sono espressi verbalmente. Ascoltare veramente non significa essere sempre d’accordo, ma soltanto chiarire e capire i sentimenti e i punti di vista di un’altra persona. Senza condannare, né perdonare, “l’io Adulto” di chi ascolta, ascolta sia il contenuto sia i sentimenti che l’altra persona esprime con il proprio “io Bambino”. Non si impegna in una conversazione in prima persona , ma si focalizza sul messaggio proveniente dall’altra. Quando qualcuno si trova in un momento di forte emozione e ha bisogno di essere ascoltato, e non già di riceversi un predicozzo, questo è l’atteggiamento più appropriato.

Avere la fortuna di parlare con chi ti sta ad ascoltare veramente è terapeutico: aiuta a scaricarsi dall’ansia, dalla tensione che una determinata situazione esistenziale può provocare. Una semplice conversazione, insomma, potrebbe sostituire un ansiolitico, con tutte le conseguenze positive che si possono immaginare. Infatti è una valvola di sfogo, un supporto psicologico per chi ha bisogno di esternare il proprio vissuto spesso troppo ingombrante per essere affrontato da soli. Condividere è liberarsi e, quindi, stare meglio. Continua…

Rita Brundu

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