Tempio Pausania, 3 apr. 2018-
A Millantar, pianeta della costellazione dello Zodiaco Fessor, la vita era ben organizzata. Ogni cosa aveva il suo posto e c’era un posto per ogni cosa. Vediamo, nel dettaglio, come le 4 regole fondamentali, la vera spina dorsale su cui si reggeva il mega progetto, avevano determinato la piacevolezza e la salubrità della vita che colà veniva vissuta.
La prima regola, la mancanza di pensiero, era il cuore portante, non pensare era stabilito alla nascita e il genoma del non pensiero veniva trasfuso da padre a figlio, da figlio a nipote, da nipote a nonno, secondo un ciclo biologico insolito ma decisamente funzionale. Il bambino di Millantar, alla nascita dopo la parola quid, che era il suo primo vagito, manifestava una indole pacifica sino all’età di 8/10 anni, poi diventava come tutti gli altri adulti, incapace di pensare e poneva nel progettino la sua totale ignoranza, come gli altri. La seconda regola era la persuasione, cioè mangiare ad esempio un biscotto rancido e pensare che fosse una viennese. La terza regola, che derivava dalle origini mistico-mastico-fuffiche provenienti dall’aria stessa del pianeta, era la credulità a tutti i costi. Non si era creduloni per nascita ma lo si era per convenienza. In qualche modo, a chi più e a chi meno, alla stragrande maggioranza dei sudditi di Tarlok, stare nel progetto conveniva per una serie di faccende personali che ciascuno rivendicava. Per dire, anche un cane del pianeta, quelli che facevano normalmente “bau, bau”, già da cucciolo lo si convinceva che fosse un leone. Già nel secondo anno di vita, infatti, lui emetteva un Grooowwrrrr felino quando gli strizzavi le palle in segno di affetto.
La quarta e più importante regola era la coerenza. Ogni atto, ogni parola, ogni idiot conference, persino il break coffèe, erano ammantati dalla totale condivisione di tutto. Nessuno doveva opporsi, fare domande, e nemmeno dire le bugie. Anzi, le bugie erano perseguite dalla durissima legge di Millantar. Nessuno poteva smentire mai quanto veniva asserito dal re e dai suoi fedelissimi scudieri che erano veritieri per diritto acquisito, mica per altro. A chi osava mettere in discussione il pensiero vigente, oltre a ricordar lui la prima regola (quella del non pensiero), si affliggeva la “bannazione eterna”, una sorta di massacro mediatico sul social idiobook che era una costola del libro sacro, La Bubbola.
ORGANIZZAZIONE DI SCUOLE, VITA SOCIALE, GIUSTIZIA, CULTURA, UFFICI VARI DI MILLANTAR.
La vita di Millantar aveva pressapoco le medesime caratteristiche di quella di ogni altro pianeta, lavoro, scuola, vita sociale ed ogni altra attività però non seguivano le stesse dinamiche.
SCUOLA.
La scuola, ad esempio. Si entrava a 6 anni, dopo lo svezzamento col latte di cammella veneta, e a 10 si era già diplomati. La carriera scolastica procedeva spedita, anzi un fulmine proprio, perché a 11 si entrava nella università della principale città Fake City e la laurea veniva vinta con un maxigioco con Karaoke annesso. L’estrazione era simpaticissima. Il croupier aveva una grossa urna con tante palle dentro (il discorso della “palle” era un po’ la costante del pianeta) nelle quali c’erano i nomi dei fortunati estratti.
“Ora estraiamo una laurea in ingegneria quantica applicata. Siete pronti?” La folla era in trepida attesa sotto il palco mentre la musica preferita dagli abitanti, We are The Champion, rendeva l’atmosfera calda e particolarmente euforica.
“Vince una laurea in ingegneria quantica applicata – seguiva un silenzio voluto dal croupier per aumentare la suspence – il signor….il signor….il signor…anzi da oggi Dottor…Mario Fabbrus, il saldatore” La folla attorniava il vincitore al quale veniva posta una coroncina di alloro afroasiatico all’erba cipollina per indurre le lacrime e veniva immortalato con un selfie del tempo, ossia lapidato in fronte senza che potesse opporre la minima resistenza. Va bé, era lo scotto da pagare per una laurea così importante per il prosieguo della sua vita.
VITA SOCIALE.
La vita sociale prevedeva dalla nascita film della serie Pierino, anche in lingua ostrogota, giusto per abituare gli abitanti all’uso sperequato della lingua, ossia poco organizzata abitudine alla ripartizione corretta del pensiero. Si andava a teatro, al festival della panzana epica, alla sagra della mortadella del Madagascar. La spesa si faceva nei supermercati SIGNORSI’ aderenti, dove i millantariani strisciavano la card e facevano la raccolta punti per avere le desiderate pentole di lava del vulcano Ruttor. Si guardava il TG nazionale monoscopico dove appariva solo Tarlok a reti unificate, con due o tre entreneuse che gli sventolavano un lenzuolo di piume di pappagalli sordomuti brasiliani. E lui parlava, parlava, parlava, e diceva sempre le stesse cose, ma epocali. Si narra che un adepto, tal Franco Gaius, forse stanco della stessa litania del re, mostrò al televisore il dito medio ed ebbe una apparizione celeste; da allora produce latte dal seno. Un fenomeno che nemmeno gli scienziati dell’accademia della Strada di Fake City seppero mai spiegare, ma che Tarlok sfruttò a suo vantaggio emettendo l’ordinanza No Gay che condannava qualsiasi aberrazione sessuale e/o trans. L’ordinanza fu anche inserita nel Testo Sacro e costrinse i gay del pianeta ad una vita di merda e di continue finzioni del loro status, molti decisero di tagliarsi il dito medio per non incorrere nella tentazione del povero Gaius.
GIUSTIZIA.
La giustizia era coordinata col solito sistema piramidale del pianeta. Capo supremo era Tarlok che faceva un po’ come cazzo voleva, arrivando persino ad autodenunciarsi per frode quando ammise di aver barato a ruba mazzetto, il gioco preferito a Corte. C’era un tribunale ma era una scatola vuota che si riempì solo dopo una data storica che divenne la Giornata della Luna nera, il 4 aprile, che a Millantar diventò la giornata dei Morti, come da noi il 2 novembre. Da quel momento in poi, nulla fu come prima, e le sentenze decise dal tribunale furono numerose e costarono la vita a migliaia di PO, le plebe organizzata che non aveva soldi per pagarsi un legale. Tarlok sfogò sui poveri cristi la sua ferocia e la sua pazzia costringendo il pianeta ad un periodo di carestie e perdita dei pochi diritti rimasti. Tutti sapevano che quel 4 aprile aveva rappresentato un punto di non ritorno. La quiete del pascolo delle vallate sempre verdi e risplendenti di sole quasar era ormai finita e il pianeta si apprestava al periodo di buio, più che per la mancanza di luce, per la perdita della serenità infomacrobiotica che prima vigeva. Fu guerra tra poveri e poveracci, mentre alla finestra, ancora beatamente sornioni, i vertici di Corte assistevano senza muovere un mignolo.
CULTURA.
Che cosa era questa parola “cultura”, cosa mai voleva dire? Il re la aveva usata “ab ovo” nella divulgazione del suo mega progetto. Cultura, da cultivar, coltivare qualche arte? Studiare e avere conoscenza? Saper attaccare un manifesto elettorale? Cosa diamine era il difetto congenito negli adepti che faceva apostrofare le parole maschili e aggiungere “H” ad cazzum agli iscritti nelle esternazioni pubbliche di Iditobook? Quei “ma però” o “ma bensì” che sortivano fuori come niente? La consecutio temporum che regolava l’uso corretto delle preposizioni reggenti e oggettive? Cosa diavolo c’entrava col progetto? In realtà una ingenua minchiuzza, ma tant’è che le sgrammaticature erano di casa a Millantar e si assisteva ad un disordinato miscuglio di termini, forme verbali, doppie e ortografie da guinness dei primati (nel senso di ordine animale, tipo scimmie insomma) senza che nessuno si fosse presa la briga di ovviare a questa deriva linguistica. Ovvio che se un maestro non corregge, l’alunno continua a sbagliare e di conseguenza si decise di abolire la grammatica, ostica anche al re, con penose conseguenze nei libri del tempo di cui restano sporadiche tracce nei ritrovamenti dopo le eruzioni del vulcano Ruttor. Il re aveva infatti deciso di eliminare i libri e buttarli dentro il cratere del vulcano. Si sa, quando si commettono sbagli macroquantici così lapalissiani, la prima scelta è togliere di mezzo le prove. Poco male perché i New Detractor’s che vigilavano le mosse dei Millantariani, avevano già recuperato quelle tracce prima della loro distruzione. La cultura, quindi, era in realtà un pretesto per far sentire importanti quelli del salottificio Clen Clen che avevano dato luogo alla farsa epocale. Vuoi mettere i temi del mese? Gli argomenti strategopsicopatologici erano grandiosi. Uno più bello dell’altro, una volta al mese a discutere su temi esistenziali fondamentali, “chi siamo”, “dove andiamo”, “come andremo”, “che ha fatto la Juve”, “ahahah (il tema era ridere fa bene)”, “a che ora apre il benzinaio stasera”, “e così via”, “senza la luce posso vedere”, “guarda che hai le calze smagliate”, ecc. ecc. Finite le adunate, si tornava a casa e tutti erano contenti di aver dato un contributo alla soluzione dei problemi del mondo. Tutti più ricchi di ignoranza ma, ed era questo che contava, più poveri di sostanza. Però si facevano ottime conoscenze. Ad esempio, il pescivendolo conosceva il fruttarolo, l’ortolano il macellaio e lo psicologo riequilibratore e si organizzavano bisbocce tutti assieme, appassionatamente e in uno spirito di vera collegialità fuffaldeica.
UFFICI VARI
Detto del tribunale, il fiore all’occhiello di Millantar erano gli uffici postali dove ci si ritrovava per i versamenti dell’oboletto quando al re furono chiusi i rubinetti delle banche di Millantar. Una delle caratteristiche principali erano i ritardi, talmente veri dall’apparire falsi. Una raccomandata, ad esempio, che conteneva una denuncia, ci metteva anche 10 anni prima di essere spedita dalle poste. Gli incauti denuncianti erano però appagati perché comunque la denuncia l’avevano fatta. Poco importava se era arrivata a destinazione. Si racconta di denunce leggendarie, tipo emesse 3 anni prima, peraltro anche sbandierate su idiotbook e mai arrivate, tipo il famigerato quid. Tutto era in sintonia coi principi e le regole del pianeta, le cose bastava che fossero evidenziate e già si consideravano fatte. Fantastico! Di questi principi abusavano non solo il re e i suoi scudieri più stretti, ma anche tutti i fedelissimi incalliti, sfegatati, polmonizzati e persino pancreatizzati adepti. Si narra di Masturbus, un prode guerriero di Millantar che era talmente convinto di aver avuto centinaia di donne nella sua vita che ne raccontava di cotte e crude. Non ebbe mai una sola donna e pare nemmeno una gallina compiacente. In realtà, lui ne era convinto e per la sua abitudine all’autofellatio, divenne cieco. Fu il primo prototipo di infovisore a raggi pulsanti a brugola storta che gli ridette la vista. Masturbus, non ricorse più all’autofellatio e smise di vantarsi di prestazioni sessuali inesistenti. Era bugiardo, non scemo del tutto.
Altra perla del pianeta della fuffa, erano le banche, tutte stracolme di investitori stranieri, tra cui anche un beduino del Sahara occidentale, Abdul Sticaz, che aveva promesso di investire in sabbia (pare che scappò via subito dopo aver saputo che arrivava il cemento). Ci fu anche un certo Truffarelli, banchiere epocale, che il re adorava. Fu costui, a narrare la parabola dei peni e dei pesci alla platea in una sala di Fake City. Avete letto bene, dei “peni e dei pesci”. In una dottrina che si ispirava alla religione cristiana, venivano usate parabole e similitudini note del Vangelo. La parabola dei peni e dei pesci, in sintesi, era quella che i pesci venivano moltiplicati col passacazzate e i peni usati per essere introdotti nei loro deretani accondiscendenti. Finita l’era di Truffarelli che durò una manciata di date sbagliate ad hoc, qualche conferenza multilevel, due o tre sermoni da mercato delle acciughe padane, le banche si erano chiuse in un silenzio intergalattico, i finanziatori stranieri erano tutti scappati via, tranne “?”, chiamato proprio “?” che non aveva nome, faccia e nemmeno una banca ma si diceva ci fosse, e tanto bastava per alimentare la saga della fuffa.
Nel prossimo episodio vi racconteremo della giornata della Luna nera, del perché fu deciso di associarla alla giornata per la commemorazione dei defunti e del sortilegio che funestò la vita del palazzo.
Antonio Masoni