Tempio Pausania, “Il Vasistas rivelatore”, di Battista Baltolu. Poesie e Racconti

Tempio Pausania, 26 gen. 2017-

Un delicato e nostalgico ritratto giovanile, un lampo di una memoria che dimostra accorati richiami alla giovinezza e al ricordo delle prime cotte, di una scuola ancora soggetta al riconoscimento dei ruoli, al rispetto verso gli insegnanti. Quasi un monito silenzioso agli attuali tempi poco romantici e decisamente alieni all’immersione in quel tipo di emozioni e barcollamenti verso le ragazze, le timidezze manifestate da rossori, le incertezze nel comportamento di approccio e corteggiamento. Il racconto che attesta la voglia di quel tempo dell’autore, conferma avuta anche nei precedenti suoi elaborati, intrisi di dettagli e malinconici e poco nascosti riferimenti alla bellezza e alla purezza, sentimenti che sembrano oggi distanti e poco praticati (A. Mas.)

Il vasistas rivelatore

Era il millenovecentosettandadue, l’anno prima del diploma, quando un mio compagno di scuola mi chiamò: “Ciao compagno di banco, sono Enrico, Enrico Ventura.” “Sì Enrico ho capito, dimmi,” risposi. Mi invitò così a un pranzo che stava organizzando per il sabato dopo a Tempio, dove vivo e dove il padre aveva acquistato una cantina enorme proprio in centro, su una via larga e dai palazzi signorili, che non sfigurerebbe in una grande città. Voleva adibire la cantina a taverna. “Devi vedere come l’ho sistemata”, mi disse Enrico, al che, conoscendo la sua vanità e le possibilità economiche dei suoi, intuii che l’invito fosse dovuto più a rinforzare la sua vanagloria con esclamazioni di meraviglia per niente sinceri che immediatamente noi invitati saremmo stati tenuti a fare: «Che bella! Che meraviglia! Accidenti che tavolo enorme! Che belli i mattoni in cotto fiorentino!», che al piacere di vedere i suoi compagni di scuola e qualche amico del posto.

Arrivai quel sabato mattina per primo, assieme a Matteo, ragazzo bravo a scuola, ma poco loquace e forse un po’ complessato, per lo meno ciò faceva intuire il suo comportamento. Era cercato dai compagni di scuola, me compreso, quando si trattava di convincerlo a passarci il compito di greco, ma poco considerato nei momenti di svago. Sapeva anche suonare, e come tutti i suonatori di chitarra, cosa che puntualmente era successa l’estate prima, era l’unico che non acchiappava, seduto per ore interminabili a suonare le canzoni richieste dai compagni, che a ondate si eclissavano con le ragazze lasciandolo a guardarsi negli occhi con un o una sua pari e pensare: “perché siamo così sfortunati?” «Se continuerai solo a suonare la chitarra invece di accarezzare qualche bel mandolino, non ne caverai piede. Non farti considerare da tutte un amico, a un amico non la daranno mai», gli dissi un giorno, dispiaciuto dal modo in cui lo trattavano gli altri. Lui divenne più rosso del pullover che indossava e non rispose. Sapeva di essere timido, ma non riusciva a reagire e in qualunque occasione si metteva da parte con la speranza che Anna, la ragazza più brava a scuola e appena meno timida di lui lo notasse e si avvicinasse appena-appena. Ma non era mai successo. Uno aspettava l’altro e ogni volta tutto finiva in una bolla di sapone. Sarebbe successo come in un film già visto: qualcuno prima o poi si sarebbe avvicinato ad Anna e gliela avrebbe soffiata da sotto il naso. Quel giorno avevo intenzione di aiutarlo. Non ero interessato a lei, visto che già ero sulla traccia di una di Aggius, certamente meno timida ma che la timida faceva. Eravamo noi due e il padrone di casa, che con termini superlativi elogiò gli elettrodomestici di ultima generazione, la credenza in ciliegio fatta costruire apposta da non so quale artigiano famoso, il tavolo, venuto fuori dal tronco di una quercia secolare e altre magnificenze di quel luogo. Io e Matteo facemmo i meravigliati finchè l’entusiasmo del padrone di casa si placò, e così si mise a fare altro dopo aver riempito tre calici di Bitter Campari. A quel punto, silenzioso, in compagnia di Matteo che leggeva il quotidiano locale, guardai oltre la grata che proteggeva il vetro della finestrella a vasistas lungo e stretto che dava a filo di strada e vidi il portico di fronte. Non avevo fino a quel momento capito che la cantina fosse proprio davanti all’unico porticato della città. Così guardai la passeggiata a quell’ora di punta. Sabato ore 12:30, giornata uggiosa e fredda. Ma da quel pertugio non potevo vedere le persone nella loro interezza, perché davanti alla finestrella il fondo di un’auto faceva da visiera limitando la vista in alto e così guardai nello spazio compreso tra le ruote posteriori, mentre la marmitta della macchina a non più di un metro mi puntava minacciosa. Tra l’apertura limitata del vasistas e l’auto posteggiata davanti vedevo solo una striscia di vita lì fuori: piedi che sembravano fluttuare, liberi, o al massimo gambe senza ginocchia. Decisi allora di capire, per una sorta di curiosità annoiata, nell’attesa che arrivasse qualche altro invitato, chi fossero quelle persone proprietarie di quegli arti lì fuori.

Due scarpe grosse camminavano lente e pesanti, mentre di fianco a queste, altre correvano avanti e indietro incrociandole. Pensai che fossero due nonni che erano andati a prendere i nipoti a scuola, e parlando tra di loro del più e del meno, li lasciavano sfogare e rincorrersi in mezzo alla gente.

Vidi poi delle scarpe a bambola più piccole. Ah, eccone altre due: saranno due bambine, si sono bambine perché i quattro piedi si inseguivano finché in mezzo alla folla non cadde una bambola dai capelli neri, così la gente camminando si spostava per evitare di calpestarla.

“E questi chi saranno?” pensai quando vidi due pezzi di polpacci ben torniti su scarpe col tacco, e due porzioni di pantalone principe di Galles su scarpe da uomo. I quattro piedi si misero frontali. Una scarpa coi tacchi si sollevò, puntando a terra, mentre l’altra rimase sulla punta. Erano sicuramente due innamorati, che si stavano abbracciando. Forse lui lei aveva chiesto se volesse sposarla. Cacciai dalla mente quel pensiero. “Ma non starò divenando romantico”, mi dissi. Un altro paio di scarpe da ragazza mi parve di conoscerle; erano di una compagna di scuola ma non riuscivo ad abbinarle il nome. Avrei aspettato per avere conferma, chi sapevo io. Avevo forse trovato un appiglio per aiutare Matteo. Infine vidi delle scarpe col tacco basso, nere, severe, quasi minacciose, strette da un elastico nero, da istitutrice, che mi fecero pensare a una persona intransigente.

Tempo dopo usai l’esperienza del vasistas rivelatore per comporre il tema del terzo trimestre di seconda liceo. Fu da quel tema che la professoressa Barbieri capì che quei piedi erano suoi, e per come la descrissi non fu per niente contenta. Lo capii perché quando lesse il tema, arrivata alla descrizione di quelle scarpe da istitutrice, con aggettivi non proprio lusinghieri: severa, acida e vecchia zitella, lei stirò le gambe fuori della scrivania per far notare alla classe ma soprattutto a me che quelle scarpe descritte erano le sue. Ci rimasi di sasso e pensai che la mia esperienza di liceale si sarebbe allungata di un anno.

Mentre ancora ero perso tra quella folla di piedi, squillò il campanello, il nostro comune amico andò ad aprire e come se si fossero messi d’accordo arrivarono tutti gli altri assieme. La festa cominciò e dopo i soliti convenvoli mi avvicinai ad Anna, portandomi appresso Matteo per un braccio, mentre lui guardava perplesso e arrossiva, e sorridendo le dissi all’orecchio: «Lo sai che fino al vostro arrivo stavamo guardando fuori da questa finestrella e Matteo ti ha riconosciuta dalle scarpe, mentre passavi sotto il portico? Ma ti rendi conto? Conosce tutto di te, qualcosa vorrà dire no?» Lei sembrò lusingata. Mi resi conto però, in quel frangente, di averlo trattato come un bamboccio, ma il fine giustificava i mezzi, sicuro che Matteo avrebbe avuto modo di dimostrare il contrario, a me e agli altri. Era un primo passo. La serata proseguì spedita e lui, a cui bastarono due bicchieri di vino per acquistare coraggio, si fece avanti. Uscirono a braccetto. A qualcosa era servita quella cantina osannata dal padre e non di meno dal nostro compagno di scuola. Ah, dimenticavo. il tempo aggiustò tutto e la professoressa, che mai più vidi con quelle scarpe, mi perdonò. L’anno scolastico era salvo.

Battista Baltolu

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