Tempio Pausania, Cosa succede in Grecia. Rubrica economica a cura di AntonelloLoriga.

Tempio Pausania, 18 giu. 2015-

Fonte Huffingtonpost

Ufficialmente la crisi greca inizia il 20 ottobre 2009, quando il ministro delle finanze George Papaconstantinou (esponente del governo a guida socialdemocratica, vincitore delle elezioni due settimane prima) dichiara che la Grecia ha finanze molto meno solide di quanto stimato dai governi precedenti: il deficit viene così “rivisto” dal 6% al 12,5% e il debito pubblico dal 99,2% al 111,5%. La Grecia è così l’unico paese europeo – a differenza di Irlanda, Spagna, Portogallo, Cipro e Italia – in cui i problemi finanziari sono nati veramente da finanze pubbliche fuori controllo.

In realtà, già nel 2004 si era scoperto che la Grecia aveva imbrogliato sui conti, ma questa volta era diverso: il momento era già, indipendentemente dalla Grecia, carico di tensioni. Dopo la crisi americana del 2007-2008 le banche (principali detentrici di titoli pubblici) non se la passavano per niente bene, e i mercati volevano tutto tranne che assumere ulteriori rischi. I titoli greci crollarono, e i mercati iniziarono a chiedere alla Grecia dei tassi d’interesse altissimi, anche solo per rinnovare i debiti in scadenza, per essere ricompensati del rischio di prestare fondi a uno Stato così indebitato.

Così la situazione precipita rapidamente, secondo uno schema che si riproporrà in giro per l’euro-zona: (1) i tassi d’interesse salgono perché i mercati non si fidano di prestare i soldi al paese; (2) i maggiori interessi da pagare significano più spese per lo Stato e, quindi, più debito; (3) il maggiore debito significa che i mercati si fidano ancor meno, e richiedono di pagare interessi ancora più alti; (4) questo genera ancora più spese e quindi più debito, e così via.

Per contrastare questo ciclo, all’inizio del 2010 la Grecia approva il primo e il secondo pacchetto di misure di “austerità”, fatte dal blocco degli stipendi pubblici e degli straordinari nel pubblico impiego, blocco delle pensioni, aumento dell’IVA e delle accise su benzina, sigarette e alcool, tagli alla spesa pubblica (ricorda niente?). Le proteste contro i tagli diventano così forti da provocare la morte di tre persone. Ma per la Grecia queste misure standard non bastano: il 2 maggio 2010 il primo ministro greco George Papandreou è costretto ad accettare ulteriori severe misure di austerità in cambio di un pacchetto di finanziamenti dall’estero per 110 miliardi di euro.

In quel momento l’Europa non riteneva ancora che un’economia di mercato potesse entrare in crisi, e non aveva quindi nessuno strumento per fronteggiarne. Il prestito (che in effetti prevederà disborsi effettivi solo per 73 miliardi) sarà fornito in maniera bilaterale da ogni singolo Stato dell’euro-zona (tranne la Slovacchia, che si rifiutò) e dal Fondo Monetario Internazionale (FMI). L’austerità imposta alla Grecia doveva servire per garantire i creditori che questi prestiti saranno effettivamente rimborsati.
In realtà dal 2010 si apre un ciclo che va ancora avanti: (1) il governo taglia le spese e aumenta le imposte; (2) questo riduce la possibilità per imprese e famiglie di acquistare beni e servizi, e quindi deprime anche i consumi e costringe le imprese a licenziare; (3) a sua volta i minori consumi significano che lo Stato incassa meno imposte, e quindi per ridurre il deficit deve tagliare ancora di più le spese; e così via.

Così, il PIL greco vale oggi il 25,4% in meno del 2008, la disoccupazione è al 26,5% e ovviamente, per via di questo meccanismo perverso, i sacrifici non hanno nemmeno portato a una riduzione del debito pubblico, arrivato al 177,1% del PIL (anche perché se il PIL cala, lo stesso debito in rapporto al PIL diviene più grande). Tra le proteste crescenti, abbiamo così 3-4 nuove misure di austerità all’anno, varate il 23 dicembre 2010; il 29 giugno, 11 settembre e 20 ottobre 2011; il 12 febbraio, 5 novembre e 11 novembre 2012; il 28 aprile, 11 giugno, 17 luglio e 21 dicembre 2013. In mezzo, le proteste crescenti hanno implicato la caduta di vari governi, l’azzeramento del Pasok (partito socialdemocratico al potere) per aver accettato le condizioni troppo dure imposte dai creditori, e la crescita dei partiti “anti-sistema”, che porterà nel 2015 alla vittoria di Syriza.

Ma era evidente a tutti che nessuno dei pacchetti di austerità ottenne l’obiettivo di riduzione del debito pubblico che si era prefissato, come ammetterà anche il capo economista del Fondo Monetario Internazionale. Per questo nel 2012 è servito un nuovo salvataggio, i cui fondi stavolta arrivano anche dal neonato fondo “salva Stati” (ESFS, che se il programma verrà completato avrà investito in Grecia 144 miliardi) e dagli investitori privati, sostanzialmente le banche, che hanno accettato di scambiare i titoli greci in loro possesso con nuovi titoli, dal valore dimezzato. Anche la Banca Centrale Europea si è accollata parte dei rischi, principalmente continuando a prestare denaro alle banche in cambio dei titoli greci come garanzia (titoli ormai considerati spazzatura dalle agenzie di rating).

Complessivamente, i due programmi di aiuti alla Grecia hanno aiutato la Grecia ben poco. Includendo anche le proprie entrate fiscali, tra il 2010 e il 2014 il governo greco ha usato 3/4 dei fondi a sua disposizione per ripagare o rinnovare debiti esistenti, e su un totale di 254 miliardi di euro solo 27 miliardi sono stati impiegati per spesa pubblica. Allo stesso tempo, tutti questi fondi pubblici per ripagare debiti esistenti significano che di fatto l’aiuto alla Grecia è servito a togliere i titoli greci dai bilanci delle banche, facendole rientrare della loro esposizione, mentre cresceva il debito della Grecia verso gli Stati della zona euro e le organizzazioni internazionali.

Arriviamo così al 2015. Il partito di sinistra radicale Syriza vince le elezioni e va al governo con il partito nazionalista dei Greci Indipendenti, in nome della lotta all’austerità. Poiché si rifiuta da subito di imporre nuovi tagli alle pensioni e ai salari, i creditori internazionali (cioè noi) congelano il pagamento delle ultime tranche del programma di “aiuti”: erano previsti ancora 1,8 miliardi dall’ESM (il secondo fondo “salva Stati”), 3,5 dal FMI e 1,9 miliardi dalla BCE (per i profitti che ha realizzato acquistando titoli greci nel momento in cui valevano pochissimo sui mercati).

Un totale di 7,2 miliardi, che servirebbero urgentemente alla Grecia, guarda caso, per continuare a rimborsare i debiti esistenti (in primis verso il FMI stesso). Il nuovo primo ministro Alexis Tsipras vorrebbe ricevere i 7,2 miliardi e contrattare un nuovo programma di aiuti, questa volta sulla base di due obiettivi: ridurre il debito pubblico greco (con uno “sconto” da contrattare) e ridurre l’austerità imposta al governo greco. Le istituzioni internazionali (BCE, FMI e Commissione Europea) e i governi della zona euro invece non vogliono per ora parlare di sconti, e continuano a chiedere l’austerità. Vorrebbero in particolare che la Grecia mantenesse un surplus primario, ovvero la differenza tra le entrate pubbliche e le uscite, a parte gli interessi sul debito passato, pari almeno all’1% del PIL.

La settimana appena iniziata potrebbe essere decisiva: mercoledì prossimo (17 giugno) come ogni settimana la BCE dovrà decidere quanto permettere alla banca centrale greca di prestare fondi alle banche del paese (che come abbiamo detto sono le principali acquirenti di titoli di Stato); i ministri finanziari della zona euro valuteranno le ultime proposte greche (si parla di un surplus primario allo 0,9%, ormai siamo lì, ma senza tagliare stipendi e pensioni), e se non troveranno un accordo potrebbero pensarci i capi di governo, il 25 – 26 giugno. Molti ritengono che la scadenza massima di questo tira e molla sia il 30 giugno, quando la Grecia deve rimborsare 1,5 miliardi di prestiti al FMI. Ad oggi non è chiaro come voterà, né quale sia la posizione precisa, del nostro governo.

Carlo Ippoliti

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