Tempio Pausania, Il Patto di Stabilità o di Instabilità, di Lidia Riboli 1^ Parte. Rubrica Economica a cura di Antonello Loriga.

Tempio Pausania, 31 mar. 2015-

lidia riboliPATTO DI STABILITÀ O D’INSTABILITÀ? –l’Unione Europea contro la sovranità, le conquiste sociali, la democrazia– (1^parte)
Il Patto cosiddetto di Stabilità e Crescita, con­osciuto anche come “Trattato di Amsterdam”, prevede l’impegno degli Stati appartenenti all’Unione Monetaria (eurozona) di mantenere, nel tempo, il rispetto dei criteri fissati nel 1992 con la sottoscrizione del Trattato di Maastricht. Il Patto di “stabilità e crescita” sembra evocare nel nome qualcosa di positivo, ma non dobbiamo farci trarre in inganno. Al contrario, infatti, ha prodotto solo effetti estremamente negativi, contraddicendo del tutto innanzitutto l’obiettivo della crescita e nei fatti impedendo di realizzare quello della stabilità. Il Patto ha origine nel 1997 ad Amsterdam e si prefigge di impegnare gli Stati membri a rispettare l’obiettivo a medio termine di raggiungere un saldo di bilancio vicino al pareggio o attivo e un rapporto deficit/Pil inferiore al 3%. A questo scopo viene richiesto alle amministrazioni pubbliche di sottoporre i propri bilanci alla supervisione delle istituzioni europee, per farsi meglio “aiutare” dalla Commissione Europea e dal Consiglio, che li valuterà e “suggerirà” le modifiche via via da apportare. Allorché la Commissione Europea dovesse ravvisare il “pericolo” che il rapporto deficit – Pil possa avvicinarsi troppo alla fatidica soglia del 3%, questa si sarebbe attivata, inviando una raccomandazione allo Stato a rischio di inadempienza, con precisi “suggerimenti” in merito ai provvedimenti da adottare (leggi: tasse e tagli) per “raddrizzare” i conti. Se poi le raccomandazioni del Consiglio Europeo non venissero seguite dallo Stato membro, in base al Patto questo passerebbe a effettuare un’intimazione, indicando tempi e obiettivi specifici tassativi per il “risanamento”, con l’obbligo di vincolare una somma infruttifera a garanzia di una successiva sanzione. Qualora poi l’adempimento non fosse eseguito a puntino o se risultasse insufficiente, viene prevista l’applicazione della sanzione la cui entità potrebbe oscillare dallo 0,2 allo 0,4 del Pil. Fino ad oggi non sono mai state inflitte le sanzioni previste e la procedura ha avuto un carattere prevalentemente intimidatorio. La sua applicazione, inoltre, è stata piuttosto arbitraria, se consideriamo il trattamento fortemente disuguale rivolto ai diversi Paesi. Il Patto di Amsterdam è stato ulteriormente inasprito con l’approvazione del cosiddetto Fiscal Compact, nel corso del 2011 e 2012, che si è esplicitamente riferito ad esso. Il Fiscal Compact prevede maggior rigidità e sanzioni automatiche per chi non rispetta i parametri di Maastricht e in particolare il rapporto deficit-Pil massimo al 3%, introduce l’obiettivo ulteriore a medio termine del pareggio “strutturale”, definisce ed impone precise scadenze per il raggiungimento del 60% massimo nel rapporto debito-Pil in 20 anni, a partire dal 2015. In particolare per l’Italia, che ha il debito pubblico contabilizzato più alto, dopo la Grecia che è già stata commissariata con questo pretesto, viene richiesto in modo tassativo di cominciare a perseguire puntualmente quest’ultimo obiettivo, peraltro irrealizzabile, su cui si era volutamente sorvolato in sede di adesione ai precedenti Trattati e alla moneta unica. Il Fiscal Compact ribadisce l’obiettivo del pareggio di bilancio, raccomandando di inserirlo nelle Costituzioni nazionali, con l’obbligo di promulgarlo almeno in via legislativa ordinaria. Chi non avesse prontamente ottemperato, non avrebbe potuto in seguito chiedere aiuti finanziari alle istituzioni finanziarie europee (BCE e MES) deputate a “salvare” gli stessi Stati che prima erano stati obbligati a conferire loro via via cospicui finanziamenti e fette sempre più consistenti di sovranità. Solo la Repubblica Ceca e la Gran Bretagna (entrambe appartenenti all’UE ma non all’eurozona) si sono rifiutate di sottoscrivere il Fiscal Compact, che è entrato in funzione dal primo gennaio 2013, anche se l’impegno a ridurre la percentuale del debito scatterà solo due anni dopo.
Il Patto di Stabilità interno in Italia
Nei vari Paesi la legislazione nazionale si è fatta negli anni carico di recepire le direttive del Patto, essendo tenuta a dimostrare alle istituzioni europee giudicatrici di averlo fatto in modo idoneo e corrispondente ai loro dettami. Con l’articolo 28 della legge del 23 dicembre 1998, n.448 lo Stato italiano ha esteso l’applicazione degli impegni presi in sede comunitaria al governo locale. “Le Regioni, le Province Autonome, le Province, i Comuni e le Comunità Montane concorrono alla realizzazione degli obiettivi di finanza pubblica assunti dall’Italia”. L’obbligo di partecipazione delle regioni e degli enti locali alla realizzazione degli obiettivi di finanza pubblica ha assunto, di recente, valenza costituzionale con la nuova formulazione dell’articolo 119 della Costituzione – operata dalla legge costituzionale 20 aprile 2012, n. 1, volta ad introdurre il principio del pareggio di bilancio nella Carta costituzionale. Art. 119. “I Comuni, le Province, le Città metropolitane e le Regioni hanno autonomia finanziaria di entrata e di spesa, nel rispetto dell’equilibrio dei relativi bilanci, e concorrono ad assicurare l’osservanza dei vincoli economici e finanziari derivanti dall’ordinamento dell’Unione Europea”. Il Patto di Stabilità interno (la parola “crescita” originariamente affiancata in modo ipocrito a “stabilità” non viene neanche più enunciata) si inserisce in quello più generale e stabilisce dei limiti rigorosi alle spese, scaricando sulle Amministrazioni locali e i vari rami periferici dell’Amministrazione Pubblica, buona parte del peso di quanto richiesto per il raggiungimento della cosiddetta “Stabilità”, obbligandoli a raggiungere prima il pareggio, poi via via di progressivi attivi di bilancio da mettere al servizio del ripianamento del debito pubblico nazionale nei confronti dei mercati finanziari internazionali. Per raggiungere l’obiettivo richiesto, obbliga tassativamente le Regioni, gli enti locali (Province, Comuni, comunità montane) e via via tutte le aziende pubbliche e speciali a tagliare progressivamente i bilanci, nel mentre limita drasticamente, in misura maggiore anno dopo anno, le quote di trasferimento nazionali loro destinate, perfino nei casi di emergenza a causa di qualche grave calamità naturale. È singolare il fatto che l’Italia sia l’unico paese in cui lo Stato centrale si sia impegnato a coinvolgere nel rispetto del Patto, con paletti progressivamente sempre più rigidi a fronte di sanzioni automatiche, tutti gli enti territoriali scaricandovi una parte dei pesantissimi oneri assunti in sede UE, con l’imposizione di complicate e non sempre chiare modalità di calcolo, salvo alcune deroghe temporanee o comunque sempre revocabili su alcuni specifici capitoli di spesa. In questo modo, oltre a strangolarli da un punto di vista finanziario, viene loro tolta in buona parte anche la possibilità di esercitare scelte di politica economica autonoma, senza subire possibili ricatti. Del resto un patto dovrebbe essere contratto tra due soggetti con reciproco accordo, mentre in questo caso gli enti pubblici periferici vengono obbligati a recepire, subendole passivamente, le rigide disposizioni imposte dallo Stato centrale, in nome di un “patto” che non avevano scelto di contrarre e in merito al quale non sono stati mai interpellati. In tutti gli altri Paesi europei non esiste niente del genere; al massimo alle strutture locali è stata raccomandata una maggior attenzione alla spesa, ma senza dettare regole unilateralmente o predisporre un impianto sanzionatorio nei loro riguardi. In Germania, quando ultimamente lo Stato centrale ha provato a richiedere impegni più stringenti ai Laender, si è sviluppata una forte opposizione da parte loro, che ha portato a una revisione e a un significativo allentamento del patto, inversamente a quanto richiesto. In Italia, invece, con il governo Monti si è giunti all’assurda scelta di inserire il patto di stabilità interno addirittura nella Costituzione, come già avvenuto per il pareggio di bilancio, allo scopo di impedire ad eventuali governi che si fossero avvicendati di operare diversamente in base a eventuali ripensamenti. Scelta condivisa peraltro da tutti i partiti, anche da quelli, come il PD di Bersani, che prima avevano detto di considerarla pericolosissima perché in grado di castrare per i decenni a venire ogni possibilità di governare. Senza contare che, nei vari Paesi, non sempre i criteri per la contabilizzazione del debito pubblico sono analoghi; in particolare la Germania usa, in alcuni casi, metodi di contabilità a lei più favorevoli, nell’assordante silenzio delle classi politiche degli altri Paesi, Italia in primis.
Patto stabile o instabile?
Oltre ad essere fonte di grande instabilità, questo patto di “stabilità” è esso stesso fortemente instabile. I suoi obiettivi, infatti, ancorché indirizzati a un continuo, progressivo inasprimento, sono stati scriteriatamente modificati anno dopo anno, in sede di Finanziaria o di una delle sue non poche modifiche, in modo da rendere praticamente impossibile a Regioni ed enti locali qualsiasi programmazione di spesa per investimenti in nuove opere pubbliche o in interventi di manutenzione straordinaria alle infrastrutture e via via rendendo sempre più difficile mantenere perfino le spese correnti più necessarie. Il cambiamento schizofrenico delle regole e della modalità della loro applicazione aggravano considerevolmente la già estrema durezza del Patto. Mentre alla sua entrata in vigore, tanto per le Regioni quanto per gli enti locali, l’obiettivo indicato consisteva in un tot di diminuzione del disavanzo, nel 2002 il secondo governo Berlusconi ha ritenuto opportuno diversificare gli obiettivi. Così alle Regioni è stata richiesta una limitazione all’incremento delle spese correnti, a prescindere totalmente dalle entrate e perciò dal saldo effettivo, mentre agli enti locali rimaneva il vincolo sul disavanzo, anche se in aggiunta venivano introdotti vincoli sulla crescita delle spese di natura corrente. Negli anni 2003 e 2004 la disciplina del Patto di stabilità per le regioni, definito in termini di limitazioni alla crescita della spesa corrente, è stata confermata; per gli enti locali, invece, i vincoli sull’andamento delle spese correnti, introdotti nel 2002, non sono stati mantenuti e si è tornati ad un’impostazione fondata sul solo vincolo alla crescita del disavanzo, con regole diversificate per province e comuni, sia per la determinazione del saldo finanziario che per i limiti alla crescita da rispettare. Restavano comunque escluse dai vincoli del Patto, come già nel passato, le spese per gli investimenti (definite in conto capitale). Nel 2005 sono cambiate nuovamente le regole. Così è stato abbandonato il criterio del controllo dei saldi ed è stato stabilito un unico vincolo all’incremento delle spese finali di tutti gli enti territoriali, allargando la restrizione anche alle spese in conto capitale. Per il 2006 sono stati definiti dal governo Berlusconi nuovi vincoli diversificati, con riferimento alle spese correnti e alle spese per investimenti, imponendo una riduzione delle spese correnti e consentendo, invece, una crescita programmata delle spese di investimento. Più precisamente, mentre per le spese correnti è stata imposta, nel 2006, una riduzione rispetto al livello registrato da tali spese nel 2004, per le spese in conto capitale la normativa aveva invece previsto un limite massimo di incremento rispetto allo stesso anno 2004. Per la prima volta anche la spesa per il personale degli enti territoriali, che era esclusa dalla disciplina del patto di stabilità interno, è stata soggetta a limitazioni, prevedendosi che per ciascuno degli anni 2006, 2007 e 2008 essa venisse ridotta dell’1% rispetto a quella del 2004. Per le Regioni la spesa sanitaria rimaneva (come fino ad oggi ancora rimane) sempre esclusa dal Patto, ma veniva comunque sottoposta a regole specifiche sempre più stringenti, il cui mancato rispetto ha comportato una significativa riduzione di trasferimenti. Dopo di che il governo Prodi, insediatosi nel 2006, ha scelto di reintrodurre il concetto del saldo di bilancio. I Comuni erano tenuti a non peggiorare il proprio saldo finanziario (semplificando: il rapporto entrate-uscite) di un determinato anno, rispetto alla media del triennio precedente. Nel dicembre del 2007 il governo Prodi modificò ancora una volta i criteri di calcolo, sostituendo il criterio della competenza pura con quello della competenza mista (in rapporto ai risultati precedentemente conseguiti nel triennio 2003-2005). Competenza mista significa distinguere la parte corrente, dove si devono considerare le entrate accertate anche se materialmente non ancora incassate e le spese per cui è stato formalizzato un impegno anche se ancora non sono state liquidate, dagli investimenti per cui si devono considerare solo le entrate effettivamente incassate e le spese liquidate. Il risultato prodotto, come era facilmente prevedibile, fu di far risultare Comuni in regola con i parametri precedenti come inadempienti rispetto ai nuovi. Nel 2007, infatti, il saldo era calcolato in termini di cassa (riscossioni meno pagamenti) mentre in seguito, per la parte corrente, si doveva fare riferimento alla competenza (accertamenti meno impegni) e quindi i comuni, che nel triennio 2003-2005 avevano registrato riscossioni inferiori agli accertamenti o che avevano effettuato pagamenti superiori agli impegni, registravano un peggioramento della propria situazione contabile in termini di saldo. Nel 2009, con il terzo governo Berlusconi, è saltato il riferimento al triennio precedente per il rispetto del saldo finanziario, in favore dell’indicazione di un’unica annualità (per il 2009 l’anno cui riferirsi era il 2007). Per rispettare gli obiettivi, i Comuni dovevano realizzare un saldo finanziario (entrate meno spese) pari a quello del 2007 migliorato a seconda di alcuni parametri dipendenti dal grado di “virtuosità” dell’Ente. Tali parametri sono: il saldo (entrate meno spese) dell’anno 2007; il rispetto del Patto di stabilità per l’anno 2007. Quando il Comune non è in grado di rispettare il Patto di Stabilità, è soggetto nell’anno successivo a sanzioni molto pesanti, quali, testualmente: 1) drastica riduzione dei trasferimenti finanziari annuali da parte dello Stato; 2) obbligo a tagliare le stesse opere di manutenzione ordinaria e i servizi assistenziali; 3) divieto di effettuare operazioni in leasing finanziario, allo scopo di acquistare successivamente. 4) il divieto di assunzione di personale, a qualunque titolo; e con qualunque tipologia contrattuale, anche con riguardo ai processi di stabilizzazione in atto. E’ fatto altresì divieto agli enti di stipulare contratti di servizio con soggetti privati che si configurino come elusivi. Non si può procedere ad assumere neanche in relazione a deliberazioni di assunzioni fatte precedentemente. 5) divieto di contrarre mutui per il finanziamento di opere pubbliche. 6) riduzione del 30% delle indennità di funzione dei componenti della giunta e dei gettoni di presenza dei consiglieri. In base a questi due parametri si definivano quattro classi di “virtuosità” dei Comuni, a seconda se avevano rispettato solo uno dei parametri, o nessuno o tutt’e due e venivano attribuiti ad ogni classe obiettivi di saldo diversi. L’imposizione di un unico anno di riferimento è stato un elemento ulteriormente peggiorativo nella maggioranza dei casi. All’interno di un triennio, infatti, si possono verificare picchi di spesa in positivo o in negativo in un singolo anno, che possono essere compensati negli altri, ma se si stabilisce l’obbligo di prendere quale termine di riferimento un anno secco e se quell’anno il saldo, per qualche ragione, è stato eccezionalmente positivo (molte più entrate rispetto alle spese) è chiaro che diventa pressoché impossibile conseguire un risultato analogo negli anni successivi. In questo modo, tanti Comuni che credevano di essere in regola, avendo bilanci più che “in ordine”, magari fortemente in attivo, si sono visti etichettare come incapaci di rispettare il Patto e obbligati a compiere salti mortali, spesso inutilmente e perciò doppiamente penalizzati. Quando il Comune non è in grado di rispettare il Patto di Stabilità, è soggetto nell’anno successivo a sanzioni molto pesanti, quali, testualmente: 1) drastica riduzione dei trasferimenti finanziari annuali da parte dello Stato; 2) obbligo a tagliare le stesse opere di manutenzione ordinaria e i servizi assistenziali; 3) divieto di effettuare operazioni in leasing finanziario, allo scopo di acquistare successivamente. 4) il divieto di assunzione di personale, a qualunque titolo; e con qualunque tipologia contrattuale, anche con riguardo ai processi di stabilizzazione in atto. E’ fatto altresì divieto agli enti di stipulare contratti di servizio con soggetti privati che si configurino come elusivi. Non si può procedere ad assumere neanche in relazione a deliberazioni di assunzioni fatte precedentemente. 5) divieto di contrarre mutui per il finanziamento di opere pubbliche. 6) riduzione del 30% delle indennità di funzione dei componenti della giunta e dei gettoni di presenza dei consiglieri.
Lidia Riboli

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