Tempio Pausania, Il Patto di Stabilità o di Instabilità, di Lidia Riboli 2^ parte. Domani la terza ed ultima parte. Rubrica economica a cura di Antonello Loriga.

Tempio Pausania. 1 apr. 2015-

La seconda parte dell’esaustivo e chiaro argomento del Patto di Stabilità a cura di Lidia Riboli. Per comodità e semplicità di acquisizione delle informazioni, abbiamo preferito suddividerlo in tre parti. Domani prsenteremo l’ultima parte. Approfitto dell’opportunità per ringraziare l’autrice che ha messo a disposizione del sito questo studio pubblicato nel 2013 sulla Rivista Indipendenza, nella quale lei pubblica saltuariamente anche su temi diversi da quelli di economia. La precisazione dell’anno di pubblicazione è necessaria perché ancora non esisteva né Matteo Renzi né l’attuale governo di cui infatti il trattato stesso non parla. (A. Masoni)

Patto di stabilità o d’instabilità? (seconda parte)

Lidia Riboli
Lidia Riboli

Nella prima parte dell’articolo si è visto come è nato il patto di stabilità in sede UE e come sia stato l’ispiratore di tutti i Trattati successivi che l’hanno aggravato. Si è poi visto come in Italia, in particolare, lo Stato centrale abbia deciso di scaricare buona parte del peso della riduzione del deficit, imposta dal suddetto patto, sulle Regioni e ancor molto di più sugli enti locali e via via sulle altre istituzioni a partecipazione pubblica prevalente. Così, anno dopo anno, ha richiesto a Regioni, Province, Comuni, di “migliorare” il saldo, rispetto a uno o più anni passati che dovevano servire da riferimento, con l’attribuzione di obiettivi da raggiungere diversificati ente per ente. Oltre all’obbligo di tagliare inizialmente soprattutto le spese correnti e poi sempre più anche le spese per investimento che spesso vengono ad essere azzerate, si aggiunge l’ottusa rigidità delle richieste e le continue modifiche, attuate all’ultimo momento, che ostacolano ogni previsione rendendo impossibile agli enti locali programmare in anticipo il bilancio, costringendoli a navigare a vista e a prendere decisioni impopolari e apparentemente scoordinate, diventando bersagli di critiche non di rado immeritate. Allo stesso tempo vengono tagliati sempre più i trasferimenti nei loro confronti da parte dello Stato centrale.

Patto di stabilità o di stupidità?
Per rispondere a questa domanda mi sembra utile citare alcuni casi in apparenza paradossali, ma che altro non sono che la dimostrazione di come “funziona” il patto di “stabilità” interno.
Per comprendere gli esempi che seguono, però, è necessario ricordare quali erano i criteri nel 2009 per stabilire se un ente avesse rispettato o meno il patto di stabilità. Proprio in quell’anno, infatti, il governo Berlusconi stabilì che, per rispettare il patto nel periodo 2009-2011, sarebbe stato necessario conseguire in ogni anno un miglioramento del bilancio a confronto col saldo che si era prodotto in un’unica annualità, nel 2007, mentre precedentemente si doveva prendere sempre in considerazione il saldo relativo al bilancio di un triennio.
È esemplare al riguardo quanto avvenuto al Comune di Roncadelle.
Nel 2007 il Comune ha incassato gli oneri di una parte consistente della lottizzazione “Mella 2000” (la stessa dove è stata trasferita l’IKEA), un’entrata assolutamente eccezionale, irripetibile nella sua entità, che ha prodotto un saldo finanziario di gran lunga positivo. Come era logico, nel 2009 è pressoché impossibile non peggiorare quel saldo. Il bilancio di quel Comune è sempre stato in attivo, ma purtroppo (paradossalmente) nel 2007 è stato troppo in attivo e ciò ha determinato l’obbligo ad esserlo via via anche negli anni successivi. Non potendo più contare su entrate extra, il Comune, pur avendo fatto i salti mortali per cercare di rientrare negli assurdi parametri imposti, non c’è ovviamente riuscito. Come conseguenza automatica ha subito sanzioni pesantissime, che hanno obbligato l’amministrazione a tagliare sempre più le spese sociali, dovendo rinunciare del tutto a quelle per gli investimenti.
La stessa cosa è avvenuta a diversi altri Comuni, come a quello di Mogliano che, nel 2007, aveva incamerato una maxientrata straordinaria dovuta alla vendita della società Spim. Dovendo aumentare la percentuale di “virtuosità” nel 2010, è stato costretto a cercare di vendere velocemente Molius, una sua partecipata, dovendo cedere sul prezzo e richiedere un pesante anticipo. Non essendosi concretizzato l'”affare”, il Comune di Mogliano ha dovuto subire le sanzioni del Patto, che i calcoli contabili hanno quantificato in un milione e mezzo di euro, pur avendo conseguito ogni anno avanzi di bilancio e avendo nelle casse oltre otto milioni di euro. Perciò l’anno successivo, nel 2011, è stato obbligato ad alienare in più tranche proprietà e aree pubbliche per tentare di rientrare nel patto di stabilità reso ancor più pesante dalle pesanti sanzioni inflitte come conseguenza al suo sforamento. Beni pubblici da cedere in fretta a soggetti privati, ben consapevoli che le sconsiderate regole del Patto conferiscono loro il coltello dalla parte del manico nelle trattative di (s)vendita, oppure messi sbrigativamente all’asta.
Sempre in provincia di Treviso, troviamo un altro Comune “ipervirtuoso”, Caerano San Marco. Nel 2007 è stato “beneficiato” di una maxi donazione privata, che ha fatto sballare i parametri di riferimento del Patto, rendendo impossibile in seguito il conseguimento di un saldo di bilancio analogo, o addirittura maggiormente in attivo, come pretendevano le regole del Patto, che neppure hanno inteso considerare circostanze eccezionali di congiuntura.
Per il Comune di Brescia, dopo molti tira e molla, è stato varato un provvedimento ad hoc (definito non casualmente “salva Brescia”), in cui si afferma testualmente che, a partire dal 2009, i Comuni che nel 2007 hanno percepito dividendi determinati da operazioni straordinarie di società ex municipalizzate quotate in borsa, potessero effettuare i loro calcoli per il triennio 2009–2011, utilizzando come termine di confronto non esclusivamente quell’anno, ma la media dei saldi tra entrate e uscite calcolate nel quinquennio 2003–2005. Questa norma ha permesso di “salvare” città come Brescia e Reggio Emilia (le cui entrate straordinarie di quell’anno rientravano nella tipologia indicata), ma non molti altri Comuni, che forse avevano meno capacità di svolgere pressioni o erano considerati meno importanti.
Un esempio particolarmente aberrante è dato dalla vicenda del Comune di Cavagnolo, in provincia di Torino. Questo Comune, di poco più di 2mila abitanti, ha “ospitato” una succursale della ditta Eternit di Casale Monferrato, che ha causato pesantissimi danni sanitari e ambientali. Di conseguenza, in seguito a un ricorso giudiziario, in via transattiva è stato versato al Comune un risarcimento monetario pari a due milioni di euro, che la giunta avrebbe voluto impiegare per lo smantellamento dei numerosi manufatti in amianto ancora presenti. Purtroppo, però, questa entrata è avvenuta alla fine del 2011 e subito
dopo, per altre cause, il sindaco si è dovuto dimettere ed il Comune è stato commissariato, ragion per cui non è stato possibile procedere al di là dell’ordinaria amministrazione. All’inizio di quest’anno è stata eletta una nuova giunta, che non può usare quella somma perché quest’anno dovrebbe essere contabilizzata solo come spesa, essendo stata registrata come entrata nel 2011! Così questa somma è stata bloccata dal governo per impedire al Comune di effettuare una spesa in contrasto con i vincoli del patto di stabilità interno e poi iscritta nella Tesoreria Unica del Ministero, senza nemmeno generare interessi per il Comune. La popolazione vittima dell’amianto cui spettava di diritto, è obbligata a restare in un ambiente pesantemente inquinato, ma intanto ha la soddisfazione di aver permesso al governo di dimostrare all’Europa di avere risparmiato la bazzecola di ben due milioni di euro!
Eppure, quella che ai fini dell’ossequio ai vincoli dettatici dall’Unione Europea (UE) non è che una briciola, per il piccolo Comune costituirebbe tutt’altro, sarebbe di importanza letteralmente vitale!
Sempre per motivi connessi alle modalità di contabilizzazione imposte dal patto, in varie province, obbligate ad accorpare tribunali, si sono dovute chiudere sedi che erano idonee, mentre non si è potuto spendere per ristrutturare nuove sedi che erano state individuate.
Parimenti non si sono potuti effettuare interventi di carattere antisismico o di semplice manutenzione di edifici scolastici che la stessa magistratura aveva ordinato tassativamente di compiere, denunciando gli amministratori che risultavano inadempienti perché “glielo chiedeva l’Europa”.
Cambiamenti successivi aggravanti le regole del Patto

Dal 2011, in una nuova programmazione triennale, si è tornati a considerare come termine di confronto un triennio (il 2006–2008), ma da quell’anno il saldo che occorreva conseguire doveva avere come metro non più la media dei saldi prodotti nel triennio di riferimento, bensì la spesa corrente media, a cui si dovevano applicare determinate percentuali, diverse per ogni tipologia di enti, ottenendo così l’obiettivo di saldo. Per gli anni dal 2013 al 2015 al momento si considera il triennio 2007–2009. Mutamenti, però, sono sempre possibili.
Questo continuo cambio del tutto arbitrario dei parametri di confronto posti alla base dei calcoli ed il continuo cambiamento, in senso peggiorativo, degli obiettivi imposti del sistema sanzionatorio, non rendono certo più facile agli enti territoriali coinvolti il compito di svolgere l’attività amministrativa nello sforzo di adeguarla via via alle nuove richieste, non potendo peraltro sapere con certezza quali saranno i successivi termini di confronto da adottare per raggiungere i maggiori livelli di “virtuosità” richiesti.
Tra l’altro ogni anno, in sede di Finanziaria, si stabiliscono regole e obiettivi per i tre anni a seguire, prevedendoli al dettaglio nella loro progressività; ciò nonostante gli uni e le altre vengono regolarmente modificate non più tardi dell’anno successivo, con una nuova programmazione triennale, con ogni probabilità destinata a cambiare l’anno successivo. Nel 2011 e nel 2012 le programmazioni triennali con ridefinizione peggiorativa degli obiettivi e riduzione dei trasferimenti sono avvenute tre volte all’anno.
Non si capisce se, al di là dell’inasprimento delle richieste, il continuo mutamento ex post dei parametri di riferimento ad una situazione già data abbia inteso corrispondere ad un disegno punitivo o più semplicemente al tentativo, ingenuo e raffazzonato, di trovare aggiustamenti impossibili a norme che giudicare perverse e insensate rappresenta un eufemismo.
In ogni caso, anche quando il riferimento è alla media della spesa effettuata nel corso di un intero triennio trascorso, è necessario che ogni singolo anno venga realizzato l’obiettivo richiesto dal patto, con difficoltà evidenti.
In particolare, riguardo agli investimenti per i quali è ora richiesto il “miglioramento” del saldo in termini di competenza di cassa, occorre considerare che non sempre le opere pubbliche riescono ad essere completate lo stesso anno in cui vengono reperite le risorse, per cui in questi casi il saldo (rapporto entrate-uscite) non può che sballare: se un anno entrano le risorse e l’anno successivo escono per realizzare un’opera, da un punto di vista pratico si agisce nella correttezza (perché vengono investite risorse accantonate e a disposizione), ma dal punto di vista contabile i saldi non tornano.
Così nel primo anno si verificheranno più entrate che uscite (e quindi il comportamento, ai fini del Patto, sarà considerato positivo), mentre l’anno successivo ci saranno più uscite che entrate (e quindi il saldo finanziario sballerà, provocando il mancato rispetto del Patto).
Il problema di far quadrare i conti da un punto di vista formale ha incoraggiato la ricerca e l’adozione di ogni sorta di trucco contabile, per evitare di sforare il Patto ed evitare le gravi conseguenze in termini di sanzioni, anche se il continuo mutamento delle regole e dei parametri di confronto con bilanci precedenti, ormai contabilizzati nero su bianco, ha reso sempre più arduo il compito degli uffici di ragioneria chiamati a svolgere esercitazioni di funamboleria contabile.
Con giudizio discrezionale, qualche volta delle scappatoie di natura prettamente contabile sono state accettate dagli uffici di ragioneria del Ministero dell’Economia e delle Finanze, mentre il più delle volte sono state pesantemente sanzionate come elusive delle regole e di conseguenza tutti i contratti stipulati sulla sua base sono stati dichiarati nulli.
Allo stesso tempo gli amministratori, rei di aver cercato di “imbrogliare”, subiscono personalmente delle penalizzazioni di gran lunga maggiori di quelle che avrebbero subìto a seguito di uno sforamento del patto dichiarato. La volontà della classe politica nazionale di mostrarsi ligia e prona alle imposizioni dell’UE l’ha spinta a considerare gli enti nazionali periferici come concorrenti da battere o addirittura, a volte, avversari da controllare e punire.
Purtroppo non di rado Regioni o enti locali, in difficoltà ad adeguarsi alle perverse regole del Patto, hanno scelto di utilizzare lo strumento dei “derivati”, idonei a far risultare momentaneamente il bilancio adeguato ai parametri richiesti, ma in grado di causare il più delle volte, in seguito, la rovina finanziaria degli enti che erano stati imprudentemente indotti a farvi ricorso.
L’assurdità delle regole dettate ha quindi fatto sì, nella penalizzazione generale, che i Comuni che presentavano un attivo ab origine siano stati in genere quelli più penalizzati, dovendo anno dopo anno migliorare il bilancio e perciò produrre sempre più avanzi (inutili quanto insensati) rispetto agli anni precedenti, mentre quelli che avevano speso di più sono stati obbligati “soltanto” a ridurre progressivamente la quota del loro deficit iniziale.
Quando poi si è verificata qualche calamità naturale, inevitabilmente apportatrice di danni, data l’impossibilità di destinare risorse alla prevenzione, i Comuni non sono stati messi in grado di farvi fronte, senza sforare il Patto; quindi si sono trovati davanti alla classica scelta tra la padella e la brace, come è avvenuto anche due inverni fa in occasione di nevicate più copiose del previsto. I Comuni che hanno giustamente scelto di effettuare qualche spesa per rimediare ai danni provocati, l’anno successivo sono stati puniti incappando in sanzioni che li hanno messi in ginocchio. In questo modo la solerzia degli amministratori è stata punita, col risultato di incoraggiare o addirittura rendere necessaria l’adozione di un comportamento più negligente.
Per questo più volte è stata richiesta dalle amministrazioni locali la possibilità di escludere dal Patto di Stabilità almeno una certa somma da accantonare nell’eventualità di spese impreviste urgenti, ma i governi nazionali, preoccupati solo di reperire risorse contabili per adeguarsi ai rigidi vincoli europei e mostrarsi “credibili” agli occhi dei mercati finanziari, non l’hanno mai permesso, adducendo la necessità di inserire nel bilancio solo spese certe e non puramente ipotetiche (augurandosi che non dovessero malauguratamente dimostrarsi necessarie).
D’altra parte non viene permesso l’esclusione dal patto di spese affrontate a seguito di calamità, tranne nel caso che il governo non proclami lo stato di emergenza attraverso un’ordinanza e stanzi dei fondi nazionali ad hoc (l’esclusione avviene solo su quei fondi e non anche su spese fatte utilizzando risorse dello stesso ente locale). Ma questo è avvenuto solo in casi di gravità eccezionale, come in occasione di terremoti o gravi inondazioni, e in misure del tutto insufficienti (sarebbe più appropriato dire ridicole). L’inflessibile (soprattutto con l’Italia) Unione Europea non solo non permette di escludere dai vincoli del Patto neppure queste spese così necessarie, ma addirittura tende spesso a proibirle qualificandoli come “aiuti di Stato” proibiti ai sensi della legislazione liberista comunitaria!!!
Quando il Comune non è in grado di rispettare il Patto di Stabilità, tra le altre cose gli viene impedito negli anni successivi di accedere a un mutuo.
La possibilità concreta di contrarre mutui è già resa quasi impossibile in circostanze ordinarie, dal momento che tanto i crediti concessi a Regioni ed enti quanto le rate di rimborso non possono essere conteggiate ai fini del rispetto del Patto. Questo significa che, se per esempio un Comune riceve dieci milioni in prestito e li spende in un anno per finanziare un’opera, quell’anno verranno solo considerati i dieci milioni in più di uscita, che renderanno molto probabile lo sforamento del patto. Per evitarlo, il Comune dovrebbe
effettuare parti di un’opera in molti anni e richiedere finanziamenti diversi e scaglionati per ogni parte, oppure richiedere un unico finanziamento su cui cominciare fin da subito a pagare gli interessi, senza poter mettere a frutto i soldi ottenuti in prestito e potendo utilizzarli per pagare non più di una cifra tot non calcolabile se non volta per volta verso la fine di ogni anno. A quel punto dovrebbe solo decidere se far effettuare il lavoro in vari anni o in un unico anno ma con pagamento dilazionato in vari anni (nell’impossibilità di definire un contratto preciso, pena essere sanzionato per inadempimento o altrimenti per lo sforamento del patto). Si aggiunga che la quota di interessi passivi in relazione alle entrate deve diminuire di anno in anno, seguendo delle percentuali via via indicate verso la fine dell’anno per quello successivo.
Si può immaginare che queste regole, apparentemente del tutto illogiche, siano state pensate per scoraggiare il ricorso all’indebitamento. L’obiettivo principale è in realtà quello di richiedere alle amministrazioni periferiche saldi contabili sempre più positivi da far figurare in relazione al “miglioramento” della contabilità generale, in servile accettazione delle imposizioni di riduzione del deficit e del debito. Certo è che in questo modo viene sempre ridotta e spesso perfino bloccata l’attività degli enti in relazione alle necessità socio-economiche e ambientali presenti nel proprio territorio.
Nel 2010 e poi ogni anno seguente, a tutti gli enti sono state imposte norme sempre più restrittive dei bilanci e dei parametri con vincoli ancor più rigidi, specie dopo la cosiddetta “crisi dello spread” dell’estate 2011, che ha imposto ripetute manovre finanziarie con sempre nuove modifiche e inasprimenti.
Mentre nei primi anni successivi all’entrata in vigore veniva richiesto essenzialmente di contenere l’incremento della spesa e/o il peggioramento del saldo (agli enti locali, come Comuni e Province, mentre per le Regioni si è richiesto sempre di guardare unicamente alla spesa, in quanto non hanno entrate autonome ma devono utilizzare quasi soltanto trasferimenti statali), negli ultimi anni si è arrivati a richiedere continui miglioramenti dei saldi ai primi e alle seconde sempre maggiori decrementi della spesa, in relazione al triennio ormai standard 2006-2008, obbligandoli spesso a conseguire progressivi avanzi di bilancio senza poterli poi utilizzare.
Lidia Riboli

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