Tempio Pausania, Patto di Stabilità o di Instabilità, di Lidia Riboli, 3^ ed ultima parte. Rubrica economica a cura di Antonello Loriga.

Tempio Pausania, 2 apr. 2015-

Ricordando che questo studio è del 2013 e che è stato pubblicato sulla Rivista Indipendenza, quindi antecedente all’avvento di Renzi al governo, vi proponiamo la terza ed ultima parte della trattazione di Lidia Riboli sul Patto di Stabilità (o di Instabilità). Ringraziamo l’autrice di averlo messo a disposizione del  blog e la invitiamo a mandarci altri suoi lavori. Grazie Lidia e a prestissimo, (A. Masoni)

Patto di Stabilità o di instabilità? 3^ ed ultima parte, di Lidia Riboli

Lidia Riboli
Lidia Riboli

Nessun ente sfugge alla morsa esiziale del patto, anzi del cappio

Addirittura, dal primo gennaio di quest’anno (2013), il Patto è stato esteso ai Comuni tra 1001 e 5000 abitanti. Questi ultimi possono solo “godere” di un piccolissimo sconto sulla somma da accantonare rispetto agli obblighi che hanno i Comuni più grossi, ma solo per quest’anno, mentre dal 2014 in poi saranno equiparati agli altri. Questo ulteriore coinvolgimento di amministrazioni che gestiscono bilanci già così ridotti è stato previsto fin dall’ultima finanziaria scritta da Berlusconi e Tremonti sotto dettatura UE e naturalmente mantenuto dai governi successivi, nonostante reiterate quanto inattuate promesse di modifiche. Per i piccoli comuni è ancora più complicato governare i flussi di cassa, per ottemperare ai vincoli del patto di stabilità, dal momento che le loro spese sono al 90% di natura corrente.
I piccoli Comuni, prima di essere sottoposti da quest’anno a precisi tassativi vincoli di saldo, già erano sottoposti a vincoli di spesa insensati (per esempio, avevano obblighi di osservare nelle assunzioni un turnover analogo a quello di enti più grandi, potendo assumere un nuovo dipendente solo di fronte a cinque che fossero andati in pensione, cosa impraticabile in piccoli Comuni con pochi dipendenti).
Ma ancora non basta. Infatti, a decorrere dal 2014, toccherà anche ai Comuni sotto i 1000 abitanti, che saranno obbligati a formare un’unione tra loro, costruendo gestioni associate di tutte le funzioni amministrative e di tutti i servizi pubblici loro spettanti.
Questo processo è molto impegnativo e comporta costi non indifferenti (spese che ovviamente saranno contabilizzate come uscite ai fini del bilancio, andando a pesare ai fini del patto di stabilità). Ogni unione di Comuni andrà a costituire un nuovo ente che sarà superiore ai cinquemila abitanti e dovrà quindi sottostare al patto di stabilità. Inoltre saranno assoggettate al patto anche le aziende speciali, le istituzioni e le società cosiddette «in house» affidatarie dirette della gestione di servizi pubblici locali. Questo non solo per la necessità dello Stato di rastrellare risorse finanziarie a diminuzione del debito pubblico, ma anche perché molti Comuni avevano usato la scappatoia di affidare servizi a questi enti, per riuscire a rispettare gli obiettivi del patto. Così l’azienda
speciale, che precedentemente non era soggetta allo stesso regime vincolistico, si accollava un debito che altrimenti avrebbe gravato nel bilancio del Comune. Per allargare e completare la platea è stato stabilito che pure gli enti istituiti negli ultimi anni debbano rispettare il patto applicando l’obiettivo specifico di “miglioramento” del saldo a confronto con quello conseguito l’anno successivo alla propria costituzione (quindi con un risultato ormai acquisito in un anno specifico che non può essere scelto né cambiato).
Per quanto riguarda le società «in house» a partecipazione o a controllo pubblico, la Corte Costituzionale ha poi bocciato la pretesa governativa di assoggettarle al “patto”, in quanto non rientravano nell’esclusiva competenza nazionale alla luce del Titolo V. Il governo in seguito ha provato a deliberare nuovamente in merito, con qualche cambiamento di natura formale, ma è stato di nuovo sconfessato dalla Corte.
Sempre nella stessa manovra il governo Monti ha imposto che da quest’anno, per la necessità ossessiva dello Stato di far cassa, o anche solo per contribuire a far risultare l’Italia in regola con le norme contabili imposte dall’UE, anche gli enti commissariati debbano misurarsi col patto di stabilità, mentre prima potevano aspettare l’anno successivo alla loro normalizzazione dopo la fine del commissariamento. Si è giunti a deliberare perfino di imporre a tutti i comuni, dal 2013 in poi, l’obbligo di mettere da parte i propri avanzi di bilancio, via via conseguiti per effetto delle disposizioni di legge, e di depositarli presso la Banca d’Italia nella Tesoreria Unica, senza poter percepire alcun interesse. Questi soldi appartengono agli enti ma non possono essere usati per le esigenze del territorio e nemmeno essere messi a frutto. I Comuni temono, non senza valido motivo, che questa sorta di “sequestro preventivo” possa
preludere ad un successivo esproprio mediante incameramento definitivo da parte dell’amministrazione centrale.
È chiaro da tutto ciò che l’obiettivo prioritario, per i vari governi nazionali che si sono susseguiti e per quelli che verranno, non sono i bilanci, per così dire “in ordine”, ma è determinare in primis una diminuzione contabile del deficit pubblico in linea con gli assurdi e nefasti obiettivi imposti dai Trattati Europei (cui hanno accettato supinamente di sottomettersi) utilizzando a questo scopo avanzi di bilancio di istituzioni ed enti territoriali spesso faticosamente conseguiti rinunciando a spese necessarie.
I premi per gli enti “virtuosi”
Fin dal 2009 erano stati stabiliti obiettivi diversi per gli enti che avevano rispettato il patto di stabilità e gli altri (e in più erano soggetti a pesanti sanzioni). Ai primi venivano concessi “sconti” diversi sugli obiettivi da raggiungere, in base ad indicatori che negli anni seguenti sono stati ripetutamente modificati perché congegnati male, in modo tale che non venivano premiati sempre gli enti più “virtuosi”. Ma dal momento che veniva ancora richiesto il “miglioramento” del saldo di bilancio, non era evitato il paradosso che in genere proprio i Comuni considerati più virtuosi si trovasseropenalizzati, dovendo migliorare, anche se in percentuali minori, di anno in anno il loro saldo nei confronti di una o più annualità precedenti che venivano indicate, bilancio che già era stato ristretto all’osso per rientrare tra i “virtuosi”. Per ovviare a questa distorsione, è stato stabilito che il “miglioramento” del saldo dovesse considerarsi non più in rapporto al saldo di un certo periodo (come per vari anni il triennio 2006-2008), ma all’ammontare della spesa dello stesso periodo. Alla media di tale spesa andava applicata una percentuale del 16% ricavando così il saldo obiettivo, che corrispondeva all’entità del “miglioramento” richiesto al saldo per l’anno in corso.  In questo modo chi ha più speso, si trova a dover effettuare un taglio maggiore.

Per concedere premi più consistenti (se non altro nelle intenzioni che venivano conclamate), nel 2012 è stata più specificamente delineata la categoria di enti locali cui attribuire l’etichetta di “virtuosi”.

Nella manovra di luglio del 2011 si erano definite quattro classi di “virtuosità” e moltissimi parametri di valutazione per stabilire in quale classe ogni ente dovesse essere inserito, stabilendo che gli enti classificati come “virtuosi” avrebbero potuto ridurre le spese in percentuali minori. In seguito le classi sono state ridotte a due e i parametri da applicare per il 2012 si sono ridotti a quattro, rinviando al 2014 l’utilizzo degli altri. Una legge immediatamente successiva ha introdotto dei correttivi ulteriori, attraverso l’applicazione di due indicatori: il valore delle rendite catastali e il numero di occupati, il che ha reso ancor più complicati calcoli e valutazioni.
Per stabilire quali Comuni dovessero essere giudicati virtuosi e quindi premiati nel 2012, si sono considerati i risultati del 2010, così che un Comune che in quell’anno era rientrato brillantemente nei parametri veniva promosso virtuoso, anche se l’anno precedente era stato salvato e quello successivo (il 2011) aveva sforato pesantemente (come nel caso di Brescia). Non dico che Brescia non “meritasse” una simile promozione, ma solo far notare a che risultati paradossali possano condurre certi meccanismi.
Questi indicatori vanno riferiti a quattro macro-aree: il grado del rispetto del patto di stabilità, l’autonomia finanziaria (misurata rapportando al totale delle entrate correnti la somma delle entrate tributarie ed extratributarie), l’equilibrio di parte corrente (costituito dalle entrate correnti meno le spese correnti, al netto del rimborso delle anticipazioni di cassa e del rimborso anticipato dei prestiti), cui è attribuito un punteggio particolarmente alto e la capacità di riscossione dei tributi (intesa come rapporto tra le entrate di parte corrente riscosse ed accertate). L’aver rispettato il patto di stabilità di per sé deve essere considerato un prerequisito necessario.
Ogni macroarea si suddivide in microaree e a ognuna di esse è attribuito un peso e quindi un punteggio differente. Ogni Regione ha una certa autonomia nell’assegnare punti diversi agli indicatori delle varie categorie e ha facoltà di stabilire nuovi indicatori. Tra i vari parametri si deve effettuare una valutazione ponderata. Occorre calcolare il valore medio triennale di ogni indicatore, tenendo conto che ogni indicatore ha un peso diverso anche a seconda della fascia demografica a cui appartiene il Comune e quindi alla fine occorre effettuare calcoli complessi per ottenere una graduatoria ponderata all’interno dell’area demografica di riferimento di ogni Comune e poi fra tutti i Comuni delle diverse aree demografiche.
Calcoli non troppo dissimili vanno fatti per le Province. Insomma, gli enti locali più che di amministratori competenti nei vari settori di intervento ormai hanno bisogno di matematici esperti in algoritmi!
Anche per le Regioni esistono classi di virtuosità, per stabilire quali Regioni dovrebbero meritare un minor taglio dei trasferimenti da parte dello Stato centrale. Il premio per gli enti virtuosi consiste infatti nel subire castighi meno duri di quelli che devono subire gli enti giudicati non virtuosi.
Questa graduatoria si è resa necessaria perché i Comuni non potevano essere dichiarati virtuosi (e dunque meritevoli di uno sconto rispetto all’obiettivo fissato per tutti gli altri Comuni) automaticamente per il fatto di aver superato un punteggio dato. Infatti, all’attenuazione del Patto in favore di questi enti “virtuosi” doveva corrispondere quanto meno un analogo inasprimento a sfavore degli altri, all’interno di un complesso meccanismo che deve inderogabilmente garantire che il bilancio complessivo, tra sconti e penalità, resti a saldo invariato (all’interno della progressiva compressione richiesta anno dopo anno).
Dal momento che l’imperativo era ed è quello di effettuare ogni variazione quanto meno a parità di saldo, era necessario non premiare troppi Comuni, perché parimenti se ne sarebbero dovuti penalizzare troppo molti altri. Nella manovra era perciò stata introdotta una clausola di salvaguardia che stabiliva un tetto alla penalizzazione di ogni ente “non virtuoso”. Siccome poi la premialità andava calcolata percentualmente rispetto all’ammontare del bilancio, si è scelto di premiare preferibilmente Comuni piuttosto piccoli, calibrando bene gli indicatori attinenti alle varie fasce demografiche in modo da far rientrare il più possibile questi soggetti nei primi posti della graduatoria. Nel 2012 così sono stati premiati 143 Comuni, di cui solo due non sono piccoli, e cioè Brescia e Verbania. In qualche modo, pur nelle diverse proporzioni, può essere fatto un discorso analogo per le province, di cui solo quattro hanno beneficiato del premio. I Comuni e le Province più virtuose potevano evitare l’aggravio del Patto per il 2012, a patto che questa riduzione non avesse penalizzato troppo tutti gli altri enti, che già dovevano sopportare l’aggravamento annualmente progressivo del patto. In questo caso avrebbero soltanto dovuto limitare l’impegno al “miglioramento” annuale del proprio bilancio, rispettando gli obiettivi stabiliti dal governo per gli enti virtuosi. Ed è proprio quello che si è verificato. Per il 2013, però, il governo si è, anzi, si era impegnato a permettere, se non altro agli enti giudicati più virtuosi, di non essere obbligati a migliorare ancora il proprio saldo.
Se non che il governo Letta, appena insediatosi, ha sospeso il premio per la virtuosità degli enti locali per il 2013, equiparando gli obiettivi a quelli degli altri, promettendo che nel 2014 tutto sarebbe stato rivisto, che i Comuni sotto i 5000 abitanti sarebbero stati esentati dal patto per gli enti virtuosi e che la premialità sarebbe stata rivista in senso migliorativo! Nella revisione del patto di stabilità prevista, si vorrebbe eliminare la differenza tra competenza pura e di cassa (attribuite rispettivamente alle spese correnti e a quelle per gli investimenti), per utilizzare un unico parametro più simile a quello adottato dagli altri Paesi europei. Il rischio è che anche per le spese correnti, come già per gli investimenti, diventi utile –al fine del calcolo annuale del saldo– procrastinare o dilazionare i pagamenti, per conteggiarle nel bilancio successivamente, mentre ora viene fatto prima di essere liquidate, dal momento che vengono calcolate nelle spese già impegnate, anche se non ancora effettuate. Questo spingerebbe a ritardare il più possibile anche i pagamenti di quelle e perciò anche degli stipendi dei dipendenti pubblici.
Tra i numerosi indicatori che dovranno (o dovrebbero) essere introdotti nel 2014, a complicare i calcoli da effettuare per definire gli enti più meritevoli, oltre a diversi altri, sono stati aggiunti anche questi:
– rapporto tra gli introiti derivanti dall’effettiva partecipazione all’azione di contrasto all’evasione fiscale e i tributi erariali, per le regioni;- effettiva partecipazione degli enti locali all’azione di contrasto all’evasione fiscale;
– operazioni di dismissioni di partecipazioni societarie nel rispetto della normativa vigente.
In particolare quest’ultimo parametro sembra indicato non solo per premiare un risultato di natura finanziaria, ma anche per incentivare una scelta politica consona ai dettami liberisti. Vengono infatti “premiati” quei comuni che scelgono o accettano di dismettere parte del patrimonio pubblico. Del resto, anche senza il premio, questa scelta spesso è resa già obbligata dalla necessità di reperire un minimo di risorse necessarie per andare avanti, anche se la dismissione diventa irreversibile mentre l’entrata resta “una tantum”.
I Comuni hanno ripetutamente richiesto di poter spendere almeno i proventi recuperati da un’opera maggiormente efficace di contrasto all’evasione fiscale, ottenendo anche qui un diniego, in quanto la priorità è sempre e solo quella vista nel miglioramento del saldo di bilancio.
Allo scopo dichiarato di aiutare i Comuni più in difficoltà nel perseguire le regole stringenti del patto, nel 2011 è stato istituito il cosiddetto Patto di stabilità verticale, in base a cui si prevedeva che le regioni potessero cedere alcuni propri spazi finanziari ai comuni in maggiori difficoltà.
Nel 2012, oltre a cambiare in funzione che vorrebbe incentivare il Patto verticale, con la concessione da parte dello Stato di un premio alle Regioni che avessero utilizzata questa facoltà, si è aggiunto anche il Patto orizzontale.
Si tratta di un complesso sistema di crediti-debiti in base al quale è possibile, per un Comune in procinto di rischiare lo sforamento, richiedere a un altro Comune degli spazi finanziari, che dovrà poi immancabilmente restituire entro il biennio successivo, dovendo ridurre ancor più le spese di quanto richiesto dall’obiettivo già a tutti assegnato, per un importo complessivamente pari alla quota ricevuta in prestito nel primo anno. In questo modo sarà costretto a subire l’aumento degli obiettivi assegnati nei due anni successivi.
Parimenti, il Comune che aveva ceduto spazi finanziari, nei due anni successivi riduce il proprio obiettivo di un importo pari agli spazi ceduti. Questo meccanismo non tiene alcun conto della presenza di enti strutturalmente in difficoltà con il Patto ed impone una programmazione triennale che di fatto viene resa impossibile.
Nel 2013, sempre per risparmiare, è stato eliminato il leggero bonus di spesa concesso ai Comuni che intendono cedere spazi finanziari ad altri Comuni ed è stato stabilito l’obbligo per tutti gli enti di redigere precise relazioni semestrali sulla propria situazione finanziaria, oltre all’obbligo di comunicare entro una data, peraltro modificata da un anno all’altro, se e quanti spazi finanziari si intendono cedere o richiedere.
Se i termini delle scadenze temporali non venissero rispettati, o se fossero riscontrate omissioni o inesattezze anche solo formali, scatterebbero obbligatoriamente pesanti sanzioni. Le procedure richieste sono estremamente complicate e le norme stesse in vari casi possono avere interpretazioni diverse, per cui non è infrequente che gli enti si trovino a incappare inconsapevolmente in errori formali e a subire pesanti sanzioni, senza contare l’estrema difficoltà di conoscere in anticipo quali spazi finanziari dover richiedere o poter cedere. Il tutto nella grande incertezza sulle entrate possibili e sulle spese necessarie rapportate alla necessità di perseguire l’obiettivo assegnato.
Nel marzo del 2013 i sindaci di molti Comuni sono venuti a Roma dove l’Anci (Associazione Nazionale dei Comuni Italiani) ha tenuto, insieme all’Ance (Associazione Nazionale Costruttori Edili), una manifestazione per denunciare la situazione intollerabile creatasi anno dopo anno per il progressivo inasprimento del patto di stabilità. Per prima cosa hanno chiesto un allentamento dei vincoli per poter pagare i debiti contratti con le imprese che avevano lavorato per loro o reso dei servizi. Come sappiamo, attualmente nel patto di stabilità interno queste spese vengono conteggiate per competenza di cassa e cioè solo al momento in cui vengono liquidate. Il governo ha concesso di saldare queste spese in minima parte e principalmente a quegli enti locali che presentavano avanzi di cassa (tuttavia non permettendo di utilizzare tutto l’avanzo per pagare i debiti nei confronti delle imprese, ma solo una quota stabilita).
Il nuovo governo presieduto da Enrico Letta, appena insediato, ha approvato un ordine del giorno in cui si impegnava a rivedere alcuni aspetti normativi dell’ultimo patto di stabilità, in particolare l’estensione già in vigore dal primo gennaio 2013 ai Comuni sotto i cinquemila abitanti. Dopo questa dichiarazione d’intenti, nulla ha fatto. Nel decreto detto “del fare”, varato agli inizi di agosto, ha solo previsto la possibilità, per alcuni piccoli Comuni sotto i cinquemila abitanti, di presentare progetti per la realizzazione o ristrutturazione di edifici pubblici e di reti viarie. Questi progetti dovranno tassativamente superare ognuno il valore di 500000 euro e rientrare nel milione di euro. All’interno di queste cifre, potranno essere approvati progetti per un numero di Comuni superiore ai 100 e inferiore ai 200. Complessivamente la somma stanziata è di 100 milioni. Queste somme, elargite dal governo, potranno essere tenute fuori dal patto di stabilità interno (naturalmente resteranno computate nel bilancio nazionale andando a incidere nel rapporto deficit-Pil complessivo nazionale). L’iter burocratico, come è facilmente immaginabile, è complicatissimo e non è certo volto a incoraggiare i piccoli Comuni a redarre progetti, della cui approvazione non c’è nessuna certezza, perché non si sa in quanto tempo verrà esaurito il tetto di spesa (si può tuttavia facilmente prevedere che avverrà molto rapidamente).
Nella legge di stabilità, approvata fino ad oggi solo al Senato, si prevedono 50 milioni per il 2014. Nello stesso tempo vengono impedite di fatto dai vincoli dello stesso patto di stabilità interno (e non per la mancanza di fondi) opere essenziali di manutenzione ordinaria e straordinaria.
Nella stessa legge di stabilità per il 2014 si legge che ai Comuni viene concesso di spendere un miliardo di euro in più. In realtà è solo concesso loro di contribuire di meno per quel singolo anno, alla diminuzione del debito pubblico, dovendo migliorare il proprio bilancio complessivamente di 3,5 miliardi invece dei 4,5 previsti. Resta l’incertezza rispetto alle entrate delle nuove tasse comunali che dovrebbero sostituire l’Imu che già aveva sostituito l’Ici. Se è vero quanto il governo dice, che dovrebbero pesare meno sui cittadini, occorre capire se lo Stato, che ha sempre bisogno di trovare nuove risorse da portare a riduzione del debito e del deficit, compenserà o meno in toto il minor gettito nelle casse comunali. Del resto ancora non si sa come e di quanto i Comuni verranno risarciti del mancato gettito derivante dalla cancellazione della seconda rata dell’Imu per il 2013 relativamente alle prime case! Comuni che non solo non hanno saputo fino agli ultimi giorni dell’anno di quali entrate poter disporre e mettere in bilancio, col rischio molto concreto di sforare in massa il patto di stabilità e di essere perfino sanzionati per questo. Inoltre, nella programmazione triennale, restano per i Comuni tutti gli aggravamenti del patto già programmati in precedenza per gli anni successivi, non vengono affatto esonerati dal patto di stabilità i Comuni tra i 1001 e i 5000 abitanti come invece era stato con enfasi e ripetutamente promesso da Letta, e per i Comuni ancora più piccoli viene solo rinviata di sei mesi (al primo luglio 2013) l’obbligo di completare la formazione di un’unione con conseguente estensione dei vincoli del patto nei loro confronti.
I Comuni hanno reso pubblici alcuni dati, come quello indicante che la loro spesa pubblica rappresenta solo il 7,6% della spesa pubblica totale e presenta un avanzo pari a un miliardo e 667 milioni, corrispondente al 2,57% delle entrate complessive dello Stato. Inoltre hanno subìto massicci tagli ai trasferimenti e hanno dovuto contrarre gli investimenti per più di quattro miliardi, pari a una riduzione del 28% nel periodo 2007-2012.
Spese in deroga Dal 2011 sono state indicate voci di spesa che non rientrano nel calcolo delle passività. Interessante è vedere quali sono. Anche queste voci non si sono mantenute inalterate ogni anno, ma hanno subito variazioni. In genere all’inasprimento dei vincoli alle spese ordinarie si è verificato un ampliamento delle deroghe.
Attualmente le deroghe sono ammesse, in base alla legge n. 183 del
2011 (governo Monti), oltre alle risorse connesse a eventi contingenti, come il censimento, solo in relazione alle seguenti voci di spesa:
1) per le risorse connesse con la dichiarazione di un grave stato di emergenza, esclusivamente per i trasferimenti statali, e non per le risorse proprie degli enti locali.
2) Per le risorse connesse con la dichiarazione di Grande Evento da parte dello Stato, anche in questo caso per i soli trasferimenti statali. Si dichiara espressamente che i Grandi Eventi vengono equiparati allo stato di emergenza.
Per quanto riguarda l’Expo (Milano 2015), ogni tanto vengono escluse dal patto alcune spese, con un continuo tira e molla. Le motivazioni addotte sono le grandi opportunità che quest’evento darebbe all’Italia per risollevarsi dalla crisi economica (ancor oggi ne parlano attribuendogli una funzione quasi salvifica!). Di certo non si parla dei vantaggi immediati che così vengono accordati, fin da subito, a quelle imprese paramafiose che hanno ottenuto gli appalti, a fronte di svantaggi sul piano ambientale, né dei vantaggi che la popolazione milanese avrebbe potuto ricavare da quelle somme spese in altro modo. Del resto nessuna scelta è permessa realmente alla politica locale dal governo nazionale, così come nessuna scelta è realmente concessa alla politica nazionale dalle istituzioni dell’Unione Europea.
3) Per le risorse provenienti dai finanziamenti dei fondi europei. Dovendo continuare a rientrare nel Patto tanto i cofinanziamenti nazionali, quanto quelli provenienti dalle risorse in capo agli enti locali stessi, spesso questi devono rinunciare ai finanziamenti europei per non sforare il Patto di Stabilità e così subire le relative sanzioni. In alternativa dovrebbero rinunciare a spese correnti o a investimenti giudicati più utili di quelli proposti dall’Unione Europea. Del resto anche le quote finanziate dalla UE (con soldi dati anche da noi), sono solo rimborsi successivi a spese anticipate dagli enti e non sono neppure certi. È espressamente previsto infatti che, se l’UE dovesse decidere di voler rimborsare una quota minore, le spese maggiori –peraltro già effettuate dagli enti– dovrebbero rientrare nel patto. Ma, ancor peggio, la CE potrebbe anche decidere di sospendere o perfino di richiedere indietro soldi già versati!
Questa estrema difficoltà a cofinanziare e quindi ad utilizzare i fondi cosiddetti “europei” (che peraltro sono molto meno di quelli che l’Italia dà all’Unione Europea), non essendo mai spiegata, non fa che alimentare il mito delle istituzioni e degli enti pubblici italiani tutti incapaci e inefficienti, specie quelli del Sud. Ovviamente le Regioni e gli enti locali con un bilancio più ridotto avranno difficoltà maggiori a cofinanziare e ad inserire la relativa cifra nel bilancio, senza sforare i parametri. Invece, per quanto riguarda i prestiti da parte della UE, attraverso qualche istituzione finanziaria o la BEI, questi non possono essere considerati fuori dal Patto di Stabilità perché, essendo prevista la loro restituzione, costituiscono un preciso debito e pertanto vanno conteggiati nel passivo del bilancio degli enti.
A parziale deroga temporanea, la stessa legge 183 dispone l’esclusione
per gli anni 2012, 2013 e 2014, delle spese effettuate a titolo di cofinanziamento nazionale del Fondo europeo di sviluppo regionale (Fesr) e del Fondo sociale europeo (Fse, nella misura massima di un miliardo l’anno, ai fini del rispetto del patto di stabilità interno, di Regioni e Province autonome di Trento e Bolzano). Peccato che si sia dimenticato di far valere la stessa esclusione nei confronti di tutti i Comuni e le altre Province, anche perché la maggior parte degli interventi finanziati con fondi strutturali europei sono realizzati, in qualità di stazioni appaltanti, dagli enti locali stessi, in quanto destinatari in via indiretta delle risorse assegnate alle regioni.
4) Parzialmente, per i beni trasferiti dallo Stato in attuazione del federalismo demaniale (attuazione attualmente sospesa).
5) Fino a 2.5 milioni di euro, complessivamente, per le spese deliberate in ordine alla ricostruzione dei comuni dissestati della provincia de L’Aquila. Una cifra decisamente ridicola!
6) Per gli investimenti infrastrutturali da effettuare negli anni 2013 e 2014, tramite destinazione di una quota del Fondo infrastrutture, realizzati da enti locali che, entro la fine dell’anno rispettivamente precedente, abbiano proceduto alla dismissione di partecipazioni in società esercenti servizi pubblici locali di rilevanza economica, diversi dal servizio idrico.
Con questa esclusione si spingono gli enti locali a privatizzare servizi pubblicamente amministrati, ricattandoli in modo analogo e conseguente a quello attuato dalle istituzioni europee per costringere lo Stato a cedere funzioni pubbliche.
Nel dicembre del 2012, la deputata del PD Simonetta Rubinato ha proposto e ottenuto che fossero sbloccati, computandoli fuori dal patto di stabilità interno, 233 milioni di euro a favore esclusivo di asili e scuole materne private parificate, nel mentre le scuole pubbliche cadono a pezzi perché il patto di stabilità non concede margini per il loro mantenimento.
Per il comune di Parma sono escluse le risorse provenienti dallo Stato e le spese sostenute per la realizzazione degli interventi straordinari volti all’adeguamento delle dotazioni infrastrutturali di carattere viario e ferroviario e alla riqualificazione urbana della città di Parma connessi con l’insediamento dell’Autorità europea per la sicurezza alimentare (EFSA) nonché quelle per la realizzazione della Scuola per l’Europa di Parma, nella misura massima di 14 milioni per il 2013. Spese più di rappresentanza che calibrate sulle necessità dei cittadini, che erano state autorizzate per favorire la passata giunta che aveva inoltre effettuato numerose altre spese, spesso per proprie esigenze clientelari, realizzando un notevole passivo su cui precedentemente era stato chiuso un occhio, mentre ora pregiudica pesantemente l’operato e l’immagine dell’attuale giunta di Pizzarotti.
Per Roma capitale sono tenuti fuori dal Patto i costi connessi al ruolo e alle funzioni di capitale della Repubblica, in specie spese legate allo svolgimento di manifestazioni, cortei e spese di rappresentanza, che saranno esattamente quantificate da un organismo denominato “Commissione tecnica paritetica per l’attuazione del federalismo fiscale”. Inoltre sono escluse le spese per la realizzazione del “Museo della Shoah”.
Anche qui le necessità dei cittadini e dei soggetti sociali non contano, mentre vanno salvaguardate le spese di rappresentanza, che servono a dar lustro ai politici di turno e ad arricchire, presumibilmente, gli “amici degli amici”.
Conclusioni Da tutto questo emerge un quadro davvero desolante. Tuttavia non dobbiamo incorrere nell’errore di attribuire la colpa principalmente alla faciloneria e all’incompetenza della classe politica nazionale, quando invece è da ricercarsi innanzitutto nelle regole date dall’adesione all’UE e al suo sistema di imporre l’adesione a Trattati senza alcun riferimento democratico e sulla testa dei popoli e delle nazioni.
È vero che i nostri politici hanno fatto la loro parte per rendere più complicate ed inique le manovre di bilancio, scaricando sugli enti locali una parte del peso della manovra complessiva di riduzione del deficit, ma la colpa maggiore che dovremmo imputare loro è il voler perseverare a “rispettare” le regole diaboliche e distruttive imposte dal Patto di Stabilità, al posto di metterle in discussione. Far questo significherebbe trovare il coraggio di ridiscutere la stessa appartenenza all’Unione Europea, che, lungi dal costituire quel bel sogno di cui continuano a blaterare, ci sta sottraendo ogni residuo spazio di autonomia economica e finanziaria, ricattandoci per obbligarci a una definitiva cessione di sovranità politica.
Per ottemperare agli obblighi dettati dall’ultimo “mostro” giuridico, il Two Pack, entrato in vigore quest’anno, il governo Letta deve presentare all’UE la finanziaria, che viene ormai chiamata direttamente legge di stabilità, poiché deve contenere provvedimenti rigidamente tarati sul rispetto del patto di stabilità, inderogabilmente entro il 15 ottobre, prima ancora di portarla in Parlamento. In seguito il Parlamento potrà iniziare a discuterla, ma nello stesso tempo sarà visionata in sede di Commissione. Anche dopo l’approvazione del Parlamento, la Commissione potrebbe chiedere correzioni di cui il governo sarebbe obbligato a tenere conto licenziando un nuovo testo. Se non lo facesse, la Commissione avrebbe facoltà di riscrivere direttamente la legge. Quanto alla possibilità di superare appena il rapporto deficit – Pil del 3%, per l’Italia l’Europa ha deciso di non permettere neanche lo sgarro di una virgola, mentre a molti altri Paesi è stata concessa una qualche  elasticità. Così il governo Letta, continuatore del governo Monti, è stato investito del compito di presentare all’opinione pubblica italiana questo diktat come un qualcosa di assolutamente giusto, di cui addirittura dovremmo andar fieri, perché ci permette di non rientrare nella procedura di infrazione che condannerebbe l’Italia ad essere una “sorvegliata speciale” e a non poter più scrivere autonomamente la propria finanziaria. Ma non è una situazione in cui siamo già immersi fino al collo, proprio per aver accettato di firmare tutti i Trattati europei e tanto più per continuare ad accettare supinamente le disposizioni più dure e aberranti dettate nei nostri confronti?
In questo quadro si continua a fingere che la ripresa, se non ancora iniziata, è comunque prossima e sta già producendo i suoi primi segnali. Se in tutta Europa questo non è possibile, lo è ancor di meno nell’eurozona che è sottoposta a vincoli finanziari più stringenti e men che mai in Italia, la cui classe politica è tra le più servili e sottomesse alle istituzioni politiche e finanziarie europee.
Così anche gli allentamenti del patto promessi rappresentano una pura finzione, esattamente come la favola della fine della crisi e della ripresa dietro l’angolo. In realtà dietro l’angolo ci aspettano solo nuovi impegni sempre più pesanti, fino al Fiscal Compact che dal 2015 ci dovrebbe imporre una riduzione del debito a tappe forzate totalmente insostenibile.
                                                                                                     Lidia Riboli

 

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